LOLITA
Lolita vede in scena con noi una preadolescente.
È lei Lolita.
Lo spettacolo intende indagare, a partire dal famoso romanzo di Vladimir Vladimirovic Nabokov, il nostro rapporto con la sessualità da un lato. Il rapporto della donna col suo corpo e più in generale la questione del corpo della donna dall’altro.
Tutte le problematiche relative all’immagine che oggi abbiamo del corpo della donna, al suo utilizzo e a ciò che comporta da un punto di vista del ruolo sociale che oggi la donna ricopre nella società vengono viste attraverso gli occhi di una ragazzina. Attraverso gli occhi di una persona che ormai non è più una bambina e che non è ancora una donna.
La volontà dichiarata è quella di uscire dalla retorica. Di non cadere nelle sabbie mobili della divisione tra bianco e nero, evitando di ricorrere a stilemi come quelli della donna oggetto, delle quote rosa o delle pari opportunità, per arrivare invece a toccare con mano le contraddizioni che viviamo. Che spesso bruciano e che pongono diversi interrogativi ai quali però è impossibile trovare una risposta univoca.
La figura di Lolita è un riferimento grazie al quale la narrazione ha continuamente una sponda letteraria in grado di fornire continuamente elementi di riflessione.
Lolita ci interroga sul ruolo dei genitori. Su quello dei coetanei. Su quello dell’educazione.
Su quello della società in genere e dei suoi modelli.
Lolita è per noi una tentazione e un monito assieme.
CREDITI
di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani
con Enrico Castellani e Olga Bercini
con la collaborazione artistica di Vincenzo Todesco
scene Babilonia Teatri
luci e audio Babilonia Teatri/Luca Scotton
costumi Babilonia Teatri/Franca Piccoli
organizzazione Alice Castellani
grafiche Franciu
foto Marco Caselli Nirmal e Sara Castiglione
produzione Napoli Teatro Festival Italia in coproduzione con Babilonia Teatri
con il sostegno di Operaestate Festival Veneto
residenza artistica La Corte Ospitale e Cà Luogo d’Arte
produzione 2013
“(…) ciò che propongono Enrico Castellani e Valeria Raimondi è una sorta di pensiero agito, è il voler tendere la semantica del teatro: proporre nello spazio della finzione la verità dell’essere senza apparente mediazione.”
RASSEGNA STAMPA
Lolita è Olga Bercini, bambina ragazzina, Lolita è l’oggetto di uno sguardo che viola, Lolita è il non-spettacolo di Babilonia Teatri, in scena sabato sera al Comunale di Casalmaggiore. Come è accaduto con Pinocchio, ciò che propongono Enrico Castellani e Valeria Raimondi è una sorta di pensiero agito, è il voler tendere la semantica del teatro: proporre nello spazio della finzione la verità dell’essere senza apparente mediazione. In fondo è quanto accadeva ai ‘ragazzi ’ usciti dal coma di Pinocchio ed è quanto accade a Olga Bercini in Lolita per cui la presenza vera sulla scena di un non-attore diventa l’inatteso di una comunicazione estetica che ha la pretesa e l’urgenza di farsi etica, comportamento condiviso con la platea.
Qui in gioco c’è la corsa ad essere accettati di ragazzi e ragazzine, c’è la solitudine dei media, ci sono le sollecitazioni sessuali, di consumo, di piacere con cui i bambini devono fare i conti e con essi i genitori. La mediazione — come sempre per i Babilonia Teatri — è linguistica, si lega ai codici della comunicazione sociale fatta di riferimenti pop, di un diario scritto su un foglio a quadretti e proiettato, di parole digitate sul video con la grafia degli sms e dei messaggi postati in Facebook. Così il romanzo di Nabokov diviene un pretesto, Lolita un simbolo, meglio la seduzione, il crescere in fretta dei bambini adolescenti, qualunque sia il loro sesso.
Valeria Raimondi chiama il contesto, definisce la cornice: un gioco, un gioco a essere scandito da brani di X Factor, dal pezzo ascoltato con l’i-pad da Olga per caricarsi, dal dirsi della piccola Lolita, della sua voglia di incontrare un principe azzurro…Ed entra il piccolo Ettore, figlio di pochi anni di Enrico e Valeria – che bacia la sua amica Olga; dolcezza dell’infanzia.
Il gioco di cui vengono scandite le fasi è un gioco ad essere, è un gioco in cui i personaggi
delle fiabe si sporcano di attualità, il cui il volo di farfalla di Lolita coincide con i gesti di arti marziali, in cui la sessualità androgina iniziale finisce pian piano col definirsi, col farsi femminilità. E basta infatti che la bambina Olga si metta del maskare, un po’ di rossetto e si cambi d’abito: dagli short e scarpe da ginnastica ad un abitino di lino bianco perché da bambina si faccia ragazzina, ninfetta; a fare da sottofondo Non ho l’età di Gigliola Cinquetti.
La partenza è una lettura senza dubbio particolare del romanzo “Lolita” di Nabokov; l’obviettivo finale sembrerebbe essere una sorta di “j’accusa” relativo a quanto il mondo d’oggi offra ad una bambina che si affaccia all’adolescenza, quali possano esserne i modelli di riferimento proposti dalla società, quali possano essere le proiezioni interiori che in questa bambina potrebbe produursi di tutto ciò.
“Lolita”, il nuovo spettacolo di Babilonia Teatri, ovvero del duo Valeria Raimondi ed Enruico Castellani, presentato al Teatro delle Passioni questo fine settimana, è come di consueto originale e in un certo senso coraggioso: porre sulla scena da sola una undicenne per descriverne il delicato momento in cui avviene il passaggio dall’essere bambina a diventare donna è una sfida considerevole sul piano sia registico che drammaturgico.
Già in passato il duo probabilmente più interessante del nuovo teatro italiano ci ha proposto esperimenti, azioni sceniche difficili da immaginare, pensiamo al caustico, bellissimo “made in italy”, o all’efficace invettiva di “The end”.
Olga Bercini, la bimba-attrice, è eccezionale per presenza scenica e capacità di dominare una situazione che spaventerebbe chiunque, esposta con tutta se stessa a centinaia di occhi tanto da potersi sentire vivisezionati. Sulla scena la bimba usa il computer, tiene un diario, smangiucchia qualcosa, ascolta musica, mima danze, esegue mosse di karate, palesa i propri sogni, vive l’aggressiva banalità dei media, finché poco alla volta il suo corpo non tende a modificarsi, suscitando paure, imbarazzi ed infine lascia tutto scioccati con un suicidio grandguignolesco nel quale racconta di aver coinvolto pure il proprio amatissimo cagnolino. E’ un pugno allo stomaco, di quelli cui Babilonia Teatri ci ha un po’ abituati.
Sulla scena una ragazzina di undici anni, Olga Bercini, che fin dall’inizio afferma di non essere Lolita. È un’adolescente come tante altre che mangia il gelato, canta e balla come un’adulta in un talent show musicale, segue le serie televisive, ha un diario a cui affidare i suoi segreti, alle sue spalle uno schermo su cui scorrono frasi scritte come se fossero messaggi sul cellulare o su facebook. Lolita è una ragazzina che affronta il delicato passaggio dall’infanzia all’età adulta senza qualcuno accanto che la aiuti a capire e distinguere di chi potersi fidare. Una come tante altre, presa di mira da un uomo maturo che abusa di lei. Nulla è esplicito. (…) Uno spettacolo forte in cui torna ad essere presente il ruolo diseducativo di alcuni modelli proposti e imposti dalle favole, spesso assimilati come naturali. Passaggio drammatico e ironico al tempo stesso, quello in cui la voce fuori campo si rivolge a Lolita dicendo «sei le bambole, le pentole, i lucida labbra che ti hanno regalato, i cartoni animati che hai guardato, i telefilm che hai visto, sei le fiabe che ti hanno raccontato. Sei Cenerentola, schiava della donna di tuo padre, delle sue perfide figlie, tua unica speranza di riscatto è lui, rischierai la vita per lui, per un ballo con lui, per essere sua ti vestirai in modo elegante, indosserai scomode scarpe di cristallo, rientrerai a mezzanotte da brava bambina, perderai le scarpe per strada da brava ragazzina, ti sottoporrai alla prova di calzata da brava donnina, lui ti sceglierà, il tuo piede, le sue dimensioni, saranno la tua fortuna, la tua gloria, il tuo piede sarà ragione d’amore e di stima per la tua persona. Un principe feticista sarà il tuo futuro…» e ancora «sei Biancaneve, farai da sguattera a un esercito di nani, gli rifarai i letti, gli laverai la casa, gli preparerai la cena, accetterai mele dagli sconosciuti, morderai quella avvelenata, dormirai per ore ed ore, prigioniera di un sonno da cui lui, solo lui, potrà svegliarti, aspetterai che arrivi vestito di azzurro da capo a piedi, scarpe e cappello compresi. Terrai gli occhi chiusi per non vederlo agghindato in quel modo, aspetterai venga a baciarti, sentirai le sue labbra sulle tue, quel bacio darà senso alla tua vita, ti sveglierai…».
Atto d’accusa contro l’idea dominante di donna subalterna, passiva, capace di sentirsi realizzata e felice solo in quanto amata e considerata da un uomo.
BOLOGNA – Lo dice chiaramente l’attrice undicenne, Olga Bercini, poco dopo l’entrata sotto un ombrello leopardato per ripararsi da un rumore di pioggia, mentre mangia un gelato: «Io non sono Lolita». Per lei parlano spesso una voce fuori campo e scritte che scorrono su uno schermo, vergate dalla mano di una donna adulta, circondate da lucchetti pronti per essere appesi a qualche ponte e altri feticci di pre-adolescente.
Lei è quasi una bambina, imperturbabile. Non diventa minacciosa neppure quando accenna mosse di una qualche arte marziale. Ci ripete, con i registi della Lolita vista all’Arena del Sole, Valeria Raimondi e Enrico Castellani di Babilonia Teatri, quello che insinuava Magritte qualche decennio fa con il suo famoso Ceci n’est pas une pipe. Quello era il disegno di una pipa, una rappresentazione, non l’oggetto reale; e questo è teatro, finzione, rito che non implica coinvolgimento della persona, e anzi fa di tutto per moltiplicarne le voci (le scritte, il fuori campo) e trasformare la sua fragile vita reale in emblema, per stigmatizzare una storia di violenza. (…)
Lolita è uno spettacolo bello e indignato. (…) L’argomento è evidentemente duro, ma non c’è alcun compiacimento, anzi è esplicita la volontà di far scattare una reazione, mostrando la distanza tra la normale (perfino banale) quotidianità di una ragazzina di oggi, il suo mondo, e l’assurda ferocia che si scatena nella testa degli adulti.
Nello spettacolo si cita, ancora con frasi proiettate, il romanzo di Nabokov, bellissimo e liquidato alla sua uscita come scandaloso perché poco compreso. La prospettiva, però, è rovesciata: in scena non ci sono i tormenti di un professore quarantenne, ma c’è lei, la bambina, che qui si trasforma in vittima. Lei, che vive come una della sua età, che sogna di crescere e amare rimanendo se stessa, sarà vittima di un desiderio di possesso che non si vede, si intuisce soltanto. Il finale è un’allucinata proiezione nelle conseguenze dello «stupro»: la ragazzina si sporca il bianco vestito di rosso, mentre alle spalle le scorrono scritte che raccontano il suo suicidio, col cane, dopo essersi ingozzata in modo iperbolico, come un atto di estrema, indignata protesta contro la violenze degli adulti. Niente più sogni, Britney Spears, principe azzurro, facebook, diari, scarpe col tacco: la farfalla ha scoperto l’inferno dei grandi.
Nella rassegna partenopea, Colpisce il lavoro dei Babilonia sull’infanzia e il dolore.
È l’impossibilità di essere normali, è la consapevolezza del vuoto dei sentimenti, è una caotica proiezione dei desideri, ed è un’attrattiva oscura esercitata dalla morte, a creare una linea d’ombra fra alcuni spettacoli finali del Napoli Teatro Festival. In sede di bilancio diremmo che i nomi illustri anno rischiato talvolta di alimentare un catalogo asettico e patinato, mentre c’è stato anche spazio per linguaggi umani, emozioni nascoste, bellezze scomode. Di cui il teatro, nell’epoca virtuale, ha un bisogno assoluto. Prendiamo Lolita che Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, ovvero Babilonia Teatri, hanno tratto dal romanzo di Nabokov, riservando la scena alla undicenne Olga Bercini, un metro e 36 d’altezza. La bambina legge sul pc un’immaginaria lettera di congedo di un orco che parla di amore, poi annuncia il proprio ruolo in un gioco di società solo “da sbirciare”, testimonia la sua età saltando su una corda, cantando e parodiando il karaoke, sfoggiando esercizi base di arte marziale, avendo per sé piccole cure narcisistiche infantili. Sempre seria in volto. Finché dopo aver chiesto di dimenticare il suo corpo (che ha elencato pezzo a pezzo), a lei sirenetta scorre giù da sotto le vesti un’emorragia di liquido rosso sangue, e scandisce, mette a verbale un “Mi ha trovata impiccata in garage, nuda, ero truccata pesantemente” tra una montagna di vomito a terra. Parole come pugnalate per gli spettatori che l’hanno guardata voyeuristicamente fino a quel punto di tragedia dura.
«LOLITA È UN SOGNO. UN BRUTTO SOGNO. UN INCUBO. SONO PENSIERI E SEGRETI CONSEGNATI A UN DIARIO. Pensieri di una ragazzina che corre che salta che cammina sul filo. Una ragazzina che ha pensieri di donna. Lolita è un urlo e uno sberleffo insieme. Lolita è un gioco dove non è chiaro il limite tra verità e finzione. Lolita è una farfalla…». Che batte le sue ali tentando di prendere il volo, come cerca di
fare disperatamente Olga Bercini, 11 anni, protagonista del nuovo spettacolo di Babilonia
Teatri, Lolita, appunto, che ha debuttato nei giorni scorsi al Napoli Teatro Festival.
Ma è bene chiarire subito: Olga non è Lolita e Lolita non è la Lolita di Nabokov. O meglio,
è il punto di partenza di questo lavoro firmato da Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, che desiderano evidentemente interrogarsi sul corpo della donna, senza farlo parlare, ma facendolo agire in scena attraverso il corpo di Olga.
Lei, sola sul palco – in una sala del bellissimo Museo ferroviario di Pietrarsa – balla e
canta, salta col la corda, fa karate. Nessuno sa chi è, nessuno conosce la sua storia né i
suoi pensieri. Lei è lì, e le parole che scorrono alle sue spalle solo in parte la raccontano: frasi fatte sull’infanzia di oggi. Il resto tocca a noi scoprirlo o intuirlo. Lolita non è più una bambina ma non è ancora una donna, il suo corpo, dunque, come viene utilizzato? Come viene visto, osservato, giudicato? E soprattutto chi è Lolita oggi? Queste sono le domande che gli autori ci rivolgono e lo fanno accompagnandoci, mano nella mano, nel piccolo mondo di Olga, nella sua stanza, nel suo gioco, fino al tragico esito finale.
Prosegue, dunque, la ricerca di lavoro con le persone avviata con Pinocchio.
Lolita, come dicono gli autori, è «una tentazione e un monito assieme. È la voglia di giocare col fuoco e la paura di bruciarsi». E lei, Olga, se riesce ad avvicinare parte del pubblico è perché con il suo volto innocente e smaliziato mette a proprio agio le persone, spingendole – di fronte alle contraddizioni di ogni giorno – a cercare delle risposte.
Mettiamolo subito in chiaro: «Lolita» – l’acuto spettacolo di BabiloniaTeatri presentato dal Napoli Teatro Festival Italia nel museo ferroviario di Pietrarsa- si riferisce non alla trama del romanzo di Nabokov, ma al significato decisivo e onnivoro nascosto sotto la sua superficie.
Infatti, Lolita, la ninfetta per antonomasia, non esiste: o, meglio, esiste soprattutto in quanto metafora degli Stati Uniti, dove il russo Nabokov s’era trapiantato, e dell’idioma a lui «straniero» (sotto ogni profilo) che giusto per ritrarre gli States lo scrittore nato a Pietroburgo aveva dovuto adottare.
Lo stesso Nabokov, d’altronde, confessò che «il vero senso» del suo romanzo «è
che si tratta di un affare amoroso tra l’autore e la lingua inglese».
Dal canto suo, Humbert Humbert non potrebb’essere più esplicito quando esclama:
«Oh, mia Lolita, io non ho che le parole da far giostrare sulla scena!». E proprio di quella
sua esclamazione costituisce un eco la frase che una voce registrata rivolge alla Lolita di Babilonia Teatri: «Sei le parole che ti hanno detto».
In breve, qui abbiamo una bambina (l’undicenne Olga Bercini) che incarna un’epifania del
linguaggio come «corpo verbale» di Sartre. Nella quotidianità non ha che lo sfogo futile di saltare sulla corda, eseguire delle mosse di karate, cantare dietro un microfono.
Perché la sua vera realtà e la sua vera vita stanno nel testo che gli autori e registi Valeria
Raimondi ed Enrico Castellani le hanno cucito addosso come una seconda pelle: un testo
che, per l’appunto, consiste in un gelido e crudele catalogo di tutte le frasi fatte e di tutte
le imposizioni moralistiche che soffocano l’infanzia di oggi.
Alla fine si scatena l’apocalittico e granguignolesco racconto del suicidio della ragazzina.
Ed ecco il colpo d’ala dello spettacolo, la splendida idea che chiude il cerchio. La morte autentica di questa Lolita avviene quando, sul fondale, alle parole si sostituiscono dei muti segni d’interpunzione:«!!!:(».
Ancora una volta, è una sfida più che uno spettacolo quello portato sul palco da Babilonia Teatri che, dopo il recente Pinocchio, affondano ora la propria ricerca nello scandaloso romanzo di Nabokov.
Una sfida ai codici, sia linguistici che visivi, com’è consueto nella già sufficientemente delineata poetica della compagnia. Una sfida all’atto recitativo e ai processi di significazione del corpo, che alla mediazione del gesto antepone costantemente la spontaneità di un esserci fisico e concreto. Una sfida, infine, allo spettatore e alla sua comprensione di quale sia la giusta collocazione rispetto a ciò che viene mostrato. Perché, in fondo, questo sono le creature sceniche dei Babilonia: dei non-personaggi in cerca di luogo, indubbiamente al di fuori della classica quarta parete ma non del tutto ancorati alla realtà (o a una dimensione fittizia che la ricalchi fedelmente).
Olga Bercini, 11 anni, attraversa le suggestioni del libro o, per meglio dire, ne è attraversata. Lo spettacolo è lei, né più né meno, con le sue fattezze, i suoi tormenti anagrafici, i suoi dubbi e le sue fantasie che, con grammatica incerta, riversa su un diario proiettato sullo sfondo. Entra in scena reggendo un gelato, mentre vengono annunciate le regole del “gioco” che farà col pubblico. Il “gioco” è appunto un’esposizione di se stessa tanto sincera quanto asettica, priva di qualsiasi compiacimento o complicità. Scandita da quattro canzoni (che la ragazza di dice di voler dedicare agli spettatori), essa si snoda tra parole, sempre pronunciate a mo’ di elenco ritmato, e azioni, mosse da arti marziali e “playback” improvvisati, fino al suicidio finale della protagonista. Lolita, quella che è una figura dell’immaginario collettivo ancor prima che il personaggio di un romanzo, non c’è.
Si dirà, Lolita è un pretesto, una provocazione, un fantasma della nostra mente. A essere precisi, Lolita è la presunta immaturità del desiderio e il desiderio, lungi dal rappresentare una mancanza e una tendenza definite, è la capacità di immaginare il proprio futuro scegliendone il senso, cosa che la pedagogia legislativa fa coincidere con la conta dei compleanni. Se in Nabokov tutto ciò assume una connotazione sessuale, arrivando in maniera più diretta, ma in fin dei conti più facile, allo scandalo, nella Lolita di Babilonia Teatri quest’ultimo ha invece a che fare con la reale biografia di Olga, non con l’incerto doppio che, pur tenendosene a distanza, inevitabilmente crea sul palco. Anzi, ha a che fare con la pretesa di creare tale doppio e con la fatale impossibilità di riuscirci completamente. È uno scarto infinitesimale, ma prezioso, poiché su di esso si impernia tutto il peso dell’operazione e il significato di ciò che vorrebbe comunicare.
Il turbamento nei confronti dello spettatore, se mai ce n’è uno, deriva infatti dall’insinuarsi sempre più incalzante della domanda: ma non sei troppo piccola per (interpretare un ruolo, giocare col sangue, sia esso dovuto al menarca o a una ferita, immaginare la tua propria morte?), che slitta ben presto nella consapevolezza di essere noi troppo grandi per (credere alla finzione, fare i conti con la sessualità, decidere della nostra propria vita), scoprendo che l’immaturità della protagonista è in realtà figlia della nostra presunzione. Si genera così un’inquietudine ancipite, al tempo stesso teatrale, perché è sul teatro e sul suo farsi che verte, e reale, perché è dalla tangibile giovinezza dell’attrice e dai limiti che essa comporta che trae linfa e vigore.
Il titolo di un’opera può creare aspettative nel pubblico; deluderle o confermarle è parte integrante di uno spettacolo. Che Lolita, ultima produzione di Babilonia Teatri, giochi esplicitamente con attese equivoche – esibendole, alimentandole e infrangendole – lo dichiara fin dall’inizio lo spettacolo stesso. Play, ovvero game: con un tempo stabilito (50 minuti) e regole chiare. Prima tra tutte, quella fondamentale del teatro: quello che vedi potrebbe essere diverso da quello che ti aspetti di vedere.
In scena al Teatro delle Passioni di Modena dal 6 dicembre, l’ultima fatica di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani vede come performer principale una undicenne, Olga Bercini, sostenuta e affiancata dalla stessa Raimondi, coach e compagna, mai maestra, più consapevole serva di scena che regista alla Kantor. Il tutto in una scena spoglia dove trovano posto schermi, vivaci lucchetti (meglio, lukketti), occhiali a forma di cuore, bigliettini per Lolita. Nessun tentativo mimetico di riprodurre una stanzetta di ninfetta: siamo sempre in scena, la consolle luci e audio di Luca Scotton ben visibile ce lo ricorda.
Ritorna, segno distintivo del lavoro della compagnia veneta, la costruzione di un testo forte, declamato con un ritmo inconfondibile (trasmesso da Valeria a Olga), ben strutturato intorno al tema dato (la ricerca d’identità di una bambina). Ancora una volta il risultato riesce a intrecciare registri e materiali eterogenei, con un accumulo di riferimenti vasto e mai banale: una sorta di enciclopedia aperta alle contaminazioni di ogni sapere e divulgazione, wikipedica insomma. Lo spettatore si trova a sorridere per la dissacrazione delle eroine disneyane e a inquietarsi nell’esplorazione del demoniaco; si va dal lirico al grottesco, il linguaggio dei post-it e degli sms convive con Non ho l’età. Culmine emotivo (e game over) è la descrizione, simultanea a un primo mestruo simulato, di un suicidio dove angoscia e bulimia conflagrano potenti. Disagio fondamentale dell’adolescenza, quello verso il proprio corpo non amato, tragedia del singolo e insieme dramma della specie.
Non c’entra Nabokov, c’entra pochissimo anche Kubrik: rifuggendo ogni didascalia e citazione di maniera, siamo al fianco di una ragazzina dei giorni nostri. A teatro le persone sono più vive dei libri.
Seconda serata per Short Theatre intensissima e frequentatissima. Babilonia Teatri ha presentato il suo ultimo lavoro Lolita, ispirato alla icona pop – banalizzata – tratta dal romanzo di Nabokov, nel quale Valeria Raimondi ed Enrico Castellani hanno coinvolto Olga, una una bambina di undici anni, in un progetto drammaturgico sulla ricerca di identità sociale da parte di una preadolescente, sul suo bisogno d’amore e sulla violenza del nostro mondo.
Entrando in scena mangiando un cono gelato e con un ombrello aperto poggiato sulla spalla, Lolita, tramite dei testi videoproiettati, esorta il pubblico a guardare lo spettacolo come si guarda attraverso il buco di una serratura (anche se avverte che non vedranno niente) a fare fotografie ora perchè dopo farà buio, che lo spettacolo comincia appena lei finisce il gelato; che Lolita è un nick name e che il suo vero nome non lo sapranno mai, che lo spettacolo comprende quattro canzoni da lei scelte, l’ultima delle quali è a lui dedicata, e che verso la fine ci saranno due colpi di scena.
Quello cui il pubblico è invitato a spiare sono diversi quadri, in alcuni dei quali Lolita legge brani di un suo diario (microfono alla mano, il mouse per scorrere i testi che legge da un laptop, con una intonazione esemplare), oppure legge l’elenco di ciò che ha sognato di essere, alternati a brani videoproiettati nei quali Lolita è una farfalla le cui vicissitudini ci vengono raccontate con uno stile semifiabesco, intervallati dalle quattro canzoni, durante le quali Lolita si improvvisa cantante in playback, mannequin in una sfilata di moda, o, ancora, atleta esperta di arti marziali.
La videoscrittura si immette da subito come interfaccia tra pubblico e Lolita, ma anche tra pubblico e Olga, la giovanissima interprete.
Lo spettacolo è infatti molto attento nel presentare la bambina in scena sottraendola a ogni possibile forma volontaria o involontaria di sfruttamento spettacolarizzato affiancandole nei primi quadri la presenza di una donna adulta (Valeria Raimondi) che ne è in qualche modo il doppio ma anche, se non soprattutto, una garanzia di tutela e di protezione per Olga. Una volta che il pubblico è arrivato a una giusta prospettiva di sguardo tra la bambina personaggio e la bambina attrice, Olga rimane in scena da sola, anche se la presenza di Raimondi non cessa mai del tutto, rimanendo alla consolle di regia, a vista, in un angolo dello spazio scenico.
Lolita presenta momenti di altissima attualità e denuncia del sessismo dei ruoli cui già a undici anni una bambina è costretta ad adeguarsi, in una serie di imperativi morali recitati da Raimondi (il mondo rosa in cui solo un uomo, il principe, azzurro come il cielo, può dare senso alla sua vita). Una drammaturgia che individua perfettamente certi temi caldi della nostra società dei quali si parla ancora troppo poco quali la femminilizzazione delle bambine (il fatto che bambine prepuberi siano già vestite e fatte comportare come donne adulte) che vengono poi uccise proprio come le controparti adulte (come è mostrato nella scena forte del finale della quale non vogliamo svelare nulla) o come il sessismo spudoratamente spinto che ancora oggi nel 2013 insegna alle bambine come piacere ai futuri uomini da sposare piuttosto che esortarle a organizzare la propria vita in autonomia ed emancipazione.
La compagnia veronese Babilonia Teatri irrompe all’ottava edizione di Short Theatre presentando i suoi ultimi due progetti drammaturgici, “Pinocchio” e “Lolita”. Reduci da una sequenza ininterrotta di successi, salutati dal plauso caloroso e unanime di pubblico e critica – per citare gli episodi più significativi di questo cammino di ricerca, potremmo rammentare “Made in Italy”, “Pop Star”, “Pornobboy” e “The end” – Enrico Castellani e Valeria Raimondi coniugano in questi lavori dall’icastico impatto emotivo la cifra stilistica distintiva delle loro precedenti esperienze con approcci inediti di indagine estetica e teatrale, nel minimo comun denominatore di uno sguardo corrosivo capace di aggredire inquietanti zone d’ombra del reale senza neppure sfiorare il rischio di precipitare nella retorica o nel patetismo.
Gli strumenti espressivi adottati divengono armi affilate per veicolare questa poetica asciutta e incisiva:un torrenziale flusso di parole scarnificate, restituite alla loro essenza senza il filtro opalescente dell’interpretazione attoriale; minimalismo del corredo scenografico, costituito da pochi oggetti di uso quotidiano che finiscono per essere ammantati da un’evidente valenza simbolica, arricchiti eventualmente da un sapiente ricorso a videoproiezioni; inserti musicali di matrice prettamente commerciale e consumistica che, a seconda della circostanze, si fanno presenza invadente e disturbante o sgargiante pennellata tale da tratteggiare istantaneamente la psicologia del personaggio in scena; il costante ribaltamento delle canoniche prospettive tra performer e fruitore dell’atto teatrale, con l’intento di scardinare troppo rassicuranti e pacifiche soluzioni.
Componenti stilistiche del linguaggio drammaturgico di Babilonia Teatri che ritroviamo parzialmente in questi due ultimi lavori, ma che al contempo scoprono il fianco a sentieri non ancora battuti, mantenendo perfettamente a fuoco l’obiettivo sull’impegno sociale e civile, urgenza imprescindibile che ha da sempre animato gli sforzi artistici della compagnia veneta.
In “Lolita” il linguaggio espressivo adottato sembra riavvicinarsi agli stilemi dei precedenti lavori della compagnia, quali la vorticosa eruzione del testo recitato con ritmo cadenzato ed asettica distanza, la presenza insistente del contrappunto musicale, certe atmosfere pulp di soverchiante potenza al punto di apparire scomode se non inopportune. Quest’ultimo esperimento teatrale si sostanzia anzitutto dell’incontro con Olga, una bambina di undici anni pronta anche lei ad un basilare passaggio, quello che la condurrà negli impervi territori dell’adolescenza, e che si rapporta con lo spettatore con totale e candida autenticità senza frapporre alcun filtro. Definisce lei con risoluta chiarezza le regole del gioco. Ci conduce nel suo microcosmo di bambina tra confessioni affidate all’immancabile diario, canzoni della diva di X-Factor del momento da interpretare a squarciagola, allenamenti di karate che la tramutano in un istante in fiera combattente, vezzose sfilate di moda in cui atteggiarsi a top-model con sgargianti occhiali da sole, accompagnata nel suo progressivo disvelarsi dalla presenza quasi costante in scena di Valeria Raimondi, regista che assume qui un ruolo di madre-amica nei confronti della giovane protagonista.
Come definire questa Lolita, come categorizzare, esprimere la sua essenza attuale e le sue prospettive future? A questo provvedono ovviamente le incisive grandinate verbali che si abbattono sullo spettatore, fedelmente digitate sulla tastiera di un computer e riverberate sullo schermo che costituisce lo sfondo della performance: “Sei le parole che ti hanno offeso, oltraggiato”, “Sei il divieto di correre sull’erba”, “Sei le parole a cui non hai saputo rispondere”, “Sei gli occhi che ti hanno spogliata, gli occhi in cui ti sei specchiata”, a mo’ di moderna Cenerentola “Sarai la principessa di un principe feticista”, come una Biancaneve contemporanea “Farai da sguattera a un esercito di nani”.
Ecco però l’improvvisa, violenta virata finale: palloncini posti sotto la candida veste per simulare seni ancora non plasmati dalla natura vengono fatti esplodere liberando sangue scarlatto che insozza l’abito, dando inizio alla minuziosa descrizione di un suicidio dalle tonalità a metà strada tra il grottesco e il soffocante splatter. Il nostro viaggio con “Lolita” termina al cospetto di un’ombra inquietante, quella della bambina insanguinata. Game over. Si chiude il sipario sull’inquieta infanzia di Olga-Lolita e su quest’ultimo capitolo della coraggiosa, prolifica, personale e toccante ricerca drammaturgica condotta con consapevolezza ed entusiasmo da Babilonia Teatri, che si conferma realtà teatrale dal linguaggio espressivo potente e ricercato e da un profilo artistico di spessore realmente internazionale.
Una seconda serata per Short Theatre intensissima e frequentatissima che ha proposto una rosa di spettacoli molto diversi per tipologia, drammaturgia e risultato.
Babilonia teatri ha presentato il suo ultimo lavoro Lolita, ispirato alla icona pop tratta dal romanzo di Nabokov, nel quale Valeria Raimondi ed Enrico Castellani hanno coinvolto Olga, una una bambina di undici anni, in un progetto drammaturgico sulla ricerca di identità sociale da parte di una preadolescente, sul suo bisogno d’amore e sulla violenza del nostro mondo.
Entrando in scena mangiando un cono gelato e con un ombrello aperto poggiato sulla spalla, Lolita, tramite dei testi videoproiettati, esorta il pubblico a guardare lo spettacolo come si guarda attraverso il buco di una serratura (anche se avverte che non vedranno niente) a fare fotografie ora perchè dopo farà buio, che lo spettacolo comincia appena lei finisce il gelato; che Lolita è un nick name e che il suo vero nome non lo sapranno mai, che lo spettacolo comprende quattro canzoni da lei scelte, l’ultima delle quali è a lui dedicata, e che verso la fine ci saranno due colpi di scena.
Quello cui il pubblico è invitato a spiare sono diversi quadri, in alcuni dei quali Lolita legge brani di un suo diario (microfono alla mano, il mouse per scorrere i testi che legge da un laptop, con una intonazione esemplare), oppure legge l’elenco di ciò che ha sognato di essere, alternati a brani videoproiettati nei quali Lolita è una farfalla le cui vicissitudini ci vengono raccontate con uno stile semifiabesco, intervallati dalle quattro canzoni, durante le quali Lolita si improvvisa cantante in playback, mannequin in una sfilata di moda, o, ancora, atleta esperta di arti marziali.
La videoscrittura si immette da subito come interfaccia tra pubblico e Lolita, ma anche tra pubblico e Olga, la giovanissima interprete.
Lo spettacolo è infatti molto attento nel presentare la bambina in scena sottraendola a ogni possibile forma volontaria o involontaria di sfruttamento spettacolarizzato affiancandole nei primi quadri la presenza di una donna adulta (Valeria Raimondi) che ne è in qualche modo il doppio ma anche, se non soprattutto, una garanzia di tutela e di protezione per Olga. Una volta che il pubblico è arrivato a una giusta prospettiva di sguardo tra la bambina personaggio e la bambina attrice, Olga rimane in scena da sola, anche se la presenza di Raimondi non cessa mai del tutto, rimanendo alla consolle di regia, a vista, in un angolo dello spazio scenico.
“Quanti anni deve avere Lolita per essere Lolita.
Per profumare di Lolita. Sono i nostri occhi a vedere Lolita. E’ la nostra testa a volere Lolita. Sono le nostre mani a immaginare Lolita. Lolita è un modello che la società impone. E’ una tentazione e un monito.
E’ la voglia di giocare col fuoco e la paura di bruciarsi.”
Arriva dal fondo della sala, Olga, sfreccia sopra al suo monopattino, fa due giri, poi sale sul palco. Un palco scarno, senza illuminazioni abbaglianti, senza “fronzoli”. Alcune caratteristiche cardine dell’estetica dei Babilonia rimangono: le parole scandite e non recitate (ma non urlate, né pronunciate all’unisono) le cantinelle in bella vista, la musica sparata a volumi altissimi. C’è però un approccio più delicato, meno punk, meno aggressivo, più introspettivo. Valeria Raimondi e Enrico Castellani fanno un passo indietro, lasciando la scena quasi totalmente ad Olga (guidata dalla presenza discreta di Valeria), bambinAdolescente, lolita non lolita, alle prese con la crescita, gli sms scritti in un italiano improbabile, le dichiarazioni d’amore, le domande sull’esistenza, la fatica di crescere, il passaggio alle volte violento, spesso quasi improvviso all’età adulta. Rimane sul fondo la voglia di essere ancora leggere, come quando si è bambini, leggere come le bolle di sapone che aleggiano nell’aria e che ricoprono il palco e la platea, leggere, senza percepirle, leggere come il ricordo sbiadito di una lolita che è cresciuta, di una lolita che non c’è più.
Lolita è ormai diventata nell’immaginario letterario e cinematografico contemporaneo, grazie al romanzo di Vladimir Nabokov e al film di Stanley Kubrick, l’emblema della bambina dalle movenze da donna, della dodicenne ribelle e maliziosamente spregiudicata, che possiede in sé l’ossessione sensuale degli occhi e della mente del maschio, qui incarnato dal Professor Humbert.
E’ da queste suggestioni, ma non solo da queste, che è nato lo spettacolo, con la precisa volontà di “raccontare la ricerca di un’identità da parte di una bambina, il suo bisogno d’amore e la violenza del nostro mondo”.
Come era già accaduto per “Pinocchio”, dove in scena vi erano tre uomini usciti dal coma, anche stavolta non sono più Enrico Castellani e Valeria Raimondi i protagonisti dello spettacolo, come nei primi lavori di Babilonia Teatri, ma una bambina vera, Olga Bercini, figlia d’arte, che giunge dalla platea sul palcoscenico in monopattino, facendo volteggiare una farfalla giocattolo che subito però appenderà ad un gancio, sceso dal soffitto.
Ed è proprio in questo continuo ondeggiare tra infanzia e adultità che naviga tutto la performance, che si compone comunque con molti degli stilemi cari a questa compagnia che ha segnato in certo qual modo la nuova scena italiana degli ultimi anni.
Il testo non è più scandito e gridato ossessivamente, all’unisono o meno, come avveniva nei primi spettacoli, ma si inabissa lo stesso, spesso con poetica efficacia, corroborata dall’ironia, sugli spettatori, attraverso meccanismi antiteatrali che si affidano al microfono, alla parola scritta o attraverso una lettura compita.
Sono i pensieri di un vero e proprio diario, in cui la protagonista esprime ciò che è stata, ciò che è, ciò che sarà o vorrebbe essere, ma senza certezza alcuna, perché non ha ancora capito quello che è stata, dunque né quello che ora è, né ciò che sarà.
Sono gli altri a giudicarla, sono i nostri occhi a vedere Lolita. “E’ la nostra testa a volere Lolita, sono le nostre mani a immaginare Lolita”.
E dunque, ancora una volta per la compagnia, centrali sono i luoghi comuni e gli stereotipi che la società contemporanea affibbia ad un corpo e ad una immaginazione ancora in formazione: “Quanti anni deve avere Lolita per essere Lolita, per profumare di Lolita?”.
Importante come sempre è la colonna sonora, che esprime sia l’immaginario delle Lolite che popolano il mondo contemporaneo (canzoni pop-trash cantate in playback al femminile, con un rimando a “Violetta”, la telenovela argentina che tanto sta appassionando le teenager), sia altre, dal testo significante (“Non ho l’età per amarti”).
Sullo schermo, oltre alle parole, immagini, lucchetti (che invadono anche la scena) e post-it utili per rapide comunicazioni, come pure un’incerta scrittura, con quel particolare linguaggio che caratterizza le Lolite del nostro tempo e fa presagire un epilogo tutt’altro che rassicurante.
Valeria Raimondi conduce con discreta presenza Olga Bercini per tutto il tempo, assecondandola nel suo cammino, compagna del viaggio, tutrice ed infine madre, per poi lasciarla andare, dopo un abbraccio, al suo giusto, fatale, destino. Donna forse, non più bambina, ma dove il sangue contrassegna il passaggio.
Ed è proprio sangue quello che cola abbondantemente dal vestito bianco di Lolita, anche se l’immagine, l’ultima, è “alleviata” ancora una volta da un desiderio di infanzia, un nugolo di classiche bolle di sapone ad invadere lo spazio scenico.
Coprodotto dal Napoli Teatro Festival con il sostegno di Operaestate, “Lolita” ci sembra un ulteriore passaggio interlocutorio, non banale, nel cammino artistico della compagnia. L’iniziale, ossessiva, disincantata compulsione verbale che ha caratterizzato e portato al successo Babilonia Teatri, in questa nuova fase si stempera in un’osservazione della realtà più pacata, più riflessiva, seppur ancora nutrita dalla visione dolorosa di un mondo che non sa dare risposte precise al nostro bisogno estremo di felicità.
La chiusura dell’estate di festival in Veneto è come di consueto affidata a B Motion, finestra sulla danza e sul teatro contemporanei. La programmazione teatrale si interroga quest’anno sul tema “Forever Young”: la condanna a restare sempre giovani, nonostante i dati anagrafici e i risultati ottenuti, è problema ben noto alle compagnie ormai affermate protagoniste del festival, così come la marginalizzazione di chi giovane lo è ancora. Sotto la direzione artistica di Carlo Mangolini le ossessioni e i controsensi dell’eterna giovinezza vengono esorcizzati con l’apertura di uno spazio dedicato alle nuove generazioni teatrali (come è da anni vocazione di B Motion) e con performance che coinvolgono anche ragazzini e adolescenti.
La perdita dell’innocenza e l’avanzare verso una progressiva solitudine segnano un fil rouge che lega gli spettacoli del festival. Uno sguardo ironico e pungente sul rapporto tra l’individuo, il suo quotidiano e l’appartenenza a una società sempre più omologata e indifferente fa così da contraltare all’impossibile immagine di una beata gioventù.
(…)
Un lavoro che dura nel tempo è invece quello di Babilonia Teatri con l’undicenne Olga Bercini, già interprete di The rerum natura e ora protagonista di Lolita. Olga è l’esatto contrario di quello che il titolo evoca: non è leziosa, non cerca di sedurre lo spettatore e pare non cadere neanche un attimo nel compiacimento dello stare sul palco. Ed è proprio in questo strano contrasto l’aspetto di maggiore interesse di questo lavoro. Il corpo di Olga, nel momento di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, si offre all’osservazione del pubblico: pattina, canta, si cambia, scrive, balla, si allena. È una Lolita in sottrazione quella che guardiamo muoversi con totale candore: siamo noi spettatori a proiettare su di lei un immaginario ‘sporco’ acquisito attraverso film, notiziari, web.
E ci troviamo costretti a rinunciare ai consueti schemi.
La ninfa undicenne arriva in monopattino da fondo scena, attraversando la sala illuminata da un faro, mentre l’adulta ha appena finito di elencare la “babilonica” tassonomia di punti di vista, pareri, voci di popolo sul personaggio di Lolita: dal chi non ne sa, al chi la vive nel suo immaginario; la bambina è nell’età di passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dove alcuni gesti iniziano a vivere il crinale dell’equivoco, diventa oggetto (e soggetto?) di seduzione. Come le more addentate dallo spiedino, gesto innocente e capace di un potenziale di provocazione adulta di cui chi lo pone in essere (e non parliamo qui della giovane attrice ma di ogni ragazzina di quell’età) può o meno essere consapevole, tutto in quell’età diventa ambiguo. Il corpo cambia, porta i segni dell’età feconda della specie umana, che socialmente si sposta vicino ai 40 anni, ma nella dinamica sessuale inizia invece prestissimo. Sempre più, in un’iconografia di diari, lucchetti, post-it, sms, canzoni di x-factor, fra bambine-ragazze, che giocano con le bolle di sapone e indossano capi di abbigliamento che le trasformano in signorine, che vanno in palestra di karate e di colpo ti sembrano Uma Thurman in Kill Bill, pronte a combattere per la vita.
Tutto questo c’è. Tutto questo nel nuovo spettacolo di Babilonia Teatri è visibile.
In scena oltre alla piccola Olga Bercini, anche una Valeria Raimondi che, dopo un paio d’anni di chioma a zero, sfoggia una più tranquillizzante capigliatura altezza spalla. Lei e la ragazza si alternano nella lettura al computer, nelle scene di canto in playback. La Raimondi è volutamente in un ruolo quasi equivoco di madre-amica e regista sul palcoscenico, mentre lo storico collaboratore della compagnia, Luca Scotton, opera i suoi interventi sul palco in maniera kantoriana, irrompendo in scena per sistemare questo o quello, amplificando la logica inganno-disinganno che ovviamente nella parte finale dello spettacolo viene mitigata per evitare che il climax di evocazione della sensualità si interrompa, mentre, come chi ha a che fare con gli adolescenti sa, la parola suicidio appare ogni tre per due fra sms e diari, mista a storie d’amore, racconti di rapporti conflittuali e avidi col cibo.
Lo spettacolo è in questi segni, in continuità con la modalità narrativa e di parola della compagnia, con gli elenchi e le raffiche verbali prive di emotività, di cantilena italica. Necrologi emotivi, asettiche travi a cui inchiodare il pubblico, ma con il tentativo, ormai in corso da alcuni spettacoli, di trovare anche altri segni. Va ad indagare un età su cui in Italia gli spettacoli sono pochi e mal confezionati.
Questo di Babilonia è uno spettacolo evidentemente di transizione, come l’età che racconta. E’ la prima volta, tuttavia, che la drammaturgia, la parola, non è il principale elemento. E che le evocazioni visive prendono una consistenza nel complesso coerente, in un equilibrio che può apprezzarsi. Chi ha figli di quell’età li troverà in scena, rappresentati in modo corretto, vero. E già questo, se il teatro è confronto critico col proprio tempo, è un risultato proprio nella levità poetica e nel progresso del linguaggio della compagnia. Lolita in fondo è un pretesto. Lolita ancora non esiste. Lolita potrebbe essere mia figlia: ma al primo fidanzatino che suona al citofono tiro appresso palloncini d’acqua bollente, giuro!
“Lolita è un urlo e uno sberleffo insieme. Lolita è un gioco dove non è chiaro il limite tra verità e finzione. Lolita è una farfalla. […] Sono i nostri occhi a vedere Lolita. È la nostra testa a volere Lolita. Sono le nostre mani a immaginare Lolita. Lolita è un modello che la società impone. È una tentazione e un monito. È la voglia di giocare col fuoco e la paura di bruciarsi”. Così si sintetizza l’anima dello spettacolo “Lolita” di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, produzione Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia in coproduzione con Babilonia Teatri, che dopo il debutto napoletano elegge a prima tappa della tournée gli spazi di Villa Greppi a Monticello Brianza, in occasione del festival “L’ultima luna d’estate”, ieri sera domenica 25 agosto 2013, alla presenza di un pubblico numeroso e partecipe.
L’immortale personaggio di Nabokov è, però, solo eco vaga che aleggia nel titolo, consacrazione letteraria di uno spettacolo che poco ha a che vedere con il romanzo dello scandalo. Perché la Lolita di Babilonia Teatri è prima di tutto corpo e voce, è l’incontro, la fisica presenza della piccola Olga Bercini, ragazzina dai pensieri di donna, alla ricerca disperata di un’identità, di punti di riferimento, di salvezza: “Olga non è Lolita […], eppure per tutto lo spettacolo lo spettatore non può fare a meno di cercare in lei la Lolita che ha in mente”, come osserva il critico e giornalista Stefano Casi. Olga accede allo spazio scenico dalla platea, infrangendo la quarta parete e invitando il pubblico a entrare nel suo mondo fatto di parole digitate al computer, di frasi nette dalla sintassi discutibile, dall’ortografia sintetica del linguaggio mediatico giovanile. Immagini proiettate su un telo bianco, alle sue spalle, sintesi visiva di alcuni cliché dell’infanzia cresciuta con i libri di Moccia.
Non esiste recitazione nel senso tradizionale del termine: al diario che racchiude i pensieri della bambina è sottratta qualsiasi emozione; lunghi intermezzi musicali scelti all’interno di un facile pop separano le scene; la voce che scandisce i pensieri è monocorde e fredda, e accompagna un corpo talora immobile, talaltra in frenetico movimento, che salta la corda, danza e tira calci e pugni. Un corpo che si staglierà infine davanti alla luce spietata del fondale, coperto da una vestina vezzosa macchiata del sangue di un metaforico menarca, o del suicidio, e che poeticamente sarà avvolto da mille bolle di sapone, simbolo di un’infanzia sfuggente, di un’innocenza ormai inaccessibile.
Monopattino, gioco, scala: Olga Bercini, 11 anni, seduta poco dietro a me, tra il pubblico, sarà la “Lolita” di Babilonia Teatri. Solo chi l’ha già vista la riconosce, per tutti gli altri è una bambina, che poi, diretta al palcoscenico è La bambina, il femminile, e in nuce è la madre, la nonna e le generazioni di donna. Con lei un’adulta, suo contralto ed emanazione; e quell’uomo che sposta cose come un operaio nel cantiere di una “casa – stanza”, dell’accadimento e della proiezione.
Lolita, la ninfetta amata dal professor Humbert Humbert nel celebre romanzo di Vladimir Nabokov non è che il principio, il riferimento nella titolazione, ma poi, tutto da lì ha partenza per nuova vita.
Non quella di Nabokov, ma un’altra scrittura ha importanza in questo lavoro, ha pari dignità della parola parlata. Entrambe sono segni, tracce di un dialogo inflesso catapultato fuori. Comunicazione silenziata o gridata che passa sulla medesima frequenza.
Per Babilonia Teatri il linguaggio è scarno, sfrondato, depurato da orpelli, da inflessioni, sfumature, ambiguità. E’ anche catalogazione di luoghi comuni, di ovvietà, di ritornelli, di mode e modi, di canzoni e movenze che così, sparate a raffica, sono rese palesi. Non consentono alibi se non quello dell’evidenza.
La prima parte è un repertorio delle iconografie più conosciute in cui imperversa il rosa, quel rosa fastidioso che è la cifra, il marchio storico della femminilità così come si vuole che sia, a cui fa da contralto l’azzurro, del principe (con diretto riferimento contemporaneo), unica e imprescindibile destinazione. Sono il rosa e l’azzurro dei fiocchi di raso della nascita, principio della nostra educazione, vividi di una lucidità da cui non riusciamo a liberarci.
Il corpo è quello di una bambina ma dentro ci stanno tante donne che non sono ancora nate, che vivono in simultanea, o che sono già morte. Anch’io sono quella bambina che guardo, quanti ammazzamenti, quante uccisioni al desiderio, alla propria natura, alla sperimentazione, al pensiero libero a fronte di un codice comportamentale di genere. E poi desideri indirizzati, scelte pilotate, e non accompagnamenti. Cliché, oggetti feticcio. Branco e tribù scambiati per comunità d’amore.
Noi siamo anche la nostra ‘educazione’, quello che abbiamo assorbito, fa intendere il messaggio, siamo il ruolo che ci hanno affidato, siamo merce per il primo compratore. Ma è anche una Lolita che vuole, che si espone, che si esibisce per mostrarsi. Dunque semmai il tema potrebbe essere: Qual è la mia innocenza? Ed esiste l’innocenza?
Questo nodo esistenziale rimane sospeso nel lavoro di Babilonia a fronte di una soluzione definitiva. Se mai un’innocenza esiste sta nella estrema tensione all’amore. Qui viene esplicato in quel sms pieno di intensità tragica, se pur di bambina, con tutta la durezza di quelle ‘K’, di quell’idioma sintetico, tagliato e più struggente di una estesa dissertazione.
Un modo contemporaneo per dire: Leggimi, sono io, sono qui.
Leggimi, ti prego, anche se non so chi sono.
Desiderio assoluto d’amore, Eros inscindibile da Thanatos. Interessante l’elencazione ci cibi, di icone autistiche di desiderio, di ingurgiti e rigurgiti bulimici.
Fuori le zavorre, le pesantezze: il mio stomaco si svuoti di merende e merendine, dei desideri edulcorati dai coloranti, dei comportamenti seriali, delle necessità indotte, della personalità costruita, dei ‘pasti’ artificiali ben serviti, degli affetti sintetici, dei simulacri, dei pezzi d’anima in ricambio, dei vuoti a perdere.
Amore, fammi leggera.
Eros e Thanatos, la bimba con la faccia invasa di trucco e il vestito macchiato di rosso.
E poi, ognuno si guardi da lassù, da lontano, da un’altra prospettiva e chieda: cosa fate? Perché lo fate?
Esiste davvero l’innocenza?
Sola, su palcoscenico, si rappresenta.
È il nostro peccato tragico del voler essere, che può tramutarsi oggi soltanto in un: ‘GUARDAMI’.
Il lavoro è interessante in più spunti, persino nella diluizione di quei primi momenti sospesi e prolungati in diretta psichica con il pubblico in attesa, prodromi della seconda parte più forte, incisiva, segnante.
In ogni caso Babilonia Teatri, come sempre, muove a discuterne.
Lolita è uno spettacolo perturbante, senza ammiccamenti compiacenti allo spettatore di Babilonia Teatri, disagevole: si sottrae alle rassicurazioni, e intanto rifila inquietudini forse troppo profonde per essere anche soltanto avvertite. Tornano segni e segnali riconoscibili del teatro di Enrico Castellani e Valeria Raimondi: la recitazione un po’ cadenzata, i lunghi inserti musicali a stacco tra una scena e l’altra, il movimento ascensionale e discendente degli oggetti, il tecnico a vista, e perfino il computer portatile che è comparso episodicamente in qualche vecchio studio di spettacolo. Eppure anche questa volta il lavoro di Babilonia Teatri è spiazzante e svicola dalle aspettative, aprendo un nuovo fronte nel percorso di invenzione della lingua teatrale iniziato con made in italy. Non un fronte nuovissimo: Lolita è infatti fortemente radicato nell’esperienza diPinocchio, non solo perché lascia la scena a un performer “autentico” (in Pinocchio tre persone uscite dal coma, in Lolita una bambina di 11 anni: Olga Bercini, peraltro già vista inThe rerum natura), ma approfondisce l’impercettibile spostamento dell’asse della ricerca artitica di Castellani e Raimondi, iniziato nello spettacolo precedente, dalla ricodifica dell’attore alla responsabilità dello sguardo dello spettatore. Lo spettacolo è “tutto” (si fa per dire) lì: nello sguardo dello spettatore. Lolita inizia con l’arrivo di Olga dalla platea, con una grande farfalla di plastica. Guadagnata la scena, la farfalla sparisce in alto, tirata su da una fune. Poi Olga si mette in proscenio di fronte a un computer. Scrive (e noi vediamo le parole di Lolita proiettate sul fondale), ci parla al microfono: Lolita è una farfalla, io non sono Lolita, io sono una ragazzina di 11 anni (un’adolescente? una pre-adolescente?), Lolita è solo il nome del gioco. Seguono altre sequenze: Olga che salta a lungo la corda, Olga che canta in playback una canzone atteggiandosi a pop star (subito omaggiata di un mazzo di fiori da un bambino ancor più piccolo), Olga che ascolta il suo destino di donna raccontato nelle fiabe di Cenerentola o Biancaneve (prima casalinga di sette uomini, poi riportata alla vita dal principe azzurro)… Finché Olga si veste e si trucca da donna, infilandosi due palloncini all’altezza del petto per simulare un seno finalmente cresciuto, prima di un duro finale. Lo spettacolo è giocato interamente sul continuo intreccio di piani tra Olga che si esibisce nei giochi tipici della sua età e Lolita che viene evocata a parole lasciando intuire tutte le connotazioni morbose che la riguardano. In questo continuo intreccio vanno in tilt le rassicurazioni. Arrivati per vedere uno spettacolo che riguarda Lolita, ci ritroviamo ad assistere ai giochi e agli esibizionismi tipici di qualsiasi ragazzina di quell’età, ci ritroviamo a vedere i giochi di Olga. E Lolita? Lolita è un gioco, diceva Olga all’inizio: ma allora, in che gioco siamo capitati, noi, adulti, venuti a vedere la Lolita conturbante del nostro immaginario per trovarci una ragazzina che gioca a cantare o a saltare la corda? Ecco lo spostamento dell’asse verso lo sguardo dello spettatore e la sua responsabilità di visione. Se in Pinocchio lo spettatore venuto a vedere le persone uscite dal coma viene investito di una complessità e naturalezza al tempo stesso, trovandosi a proiettare il proprio vissuto nel vissuto spezzato raccontato in forma di favola dai tre protagonisti, in Lolita lo spettatore rimane spiazzato dalla discordanza tra quanto annunciato dal titolo e alluso nei lunghi brani testuali che scorrono sul fondale e quanto agito da Olga in scena. Venuti a vedere Lolita ci scopriamo essere dei maturi voyeur che cercano di cogliere nel corpo e nelle azioni di Olga i segni che ce ne dovrebbero dimostrare la coincidenza con la nostra idea di Lolita. Olga salta la corda o canta e noi cerchiamo di appiccicare a quei normalissimi comportamenti del tutto innocenti qualche segno ammiccante che preannunci un’adolescenza provocante. Olga non è Lolita, lo ha detto lei stessa molto chiaramente, eppure per tutto lo spettacolo lo spettatore non può fare a meno di cercare in lei la Lolita che ha in mente. È questo il gioco dal nome Lolita di cui Olga parlava all’inizio? L’oggettiva innocenza del normale esibizionismo esuberante di una undicenne viene filtrata dallo sguardo di adulti che sovraccaricano quell’innocenza di morbosità. Complice anche il testo proiettato che, appunto, giocando sull’intreccio dei piani contribuisce a questo costante sbandamento di approccio da parte dello spettatore. Lolita, insomma, non è in scena, ma è nelle nostre teste e nelle parole di un libro squadernato, smontato e ri-creato in frasi che sono solo proiettate, e quindi immateriali, astratte, lontane dalla ragazzina che agisce in scena, anche se (all’inizio) create da lei sul computer. E poi, il duro finale: i palloncini-seno che scoppiano bagnando di rosso sangue il vestito bianco di Olga, mentre sul fondale scorre la lunga descrizione di un suicidio, che raggiunge punte grottesche; e infine la farfalla che ritorna ad abbassarsi, ma che non può più essere presa da Olga. Simbologia evidentissima e fin troppo facilmente leggibile, eppure – ancora una volta – complicata dall’intreccio dei piani e dal nostro sguardo. Ora lo spettatore è rassicurato (apparentemente) nelle sue aspettative: eccola la Lolita che avevamo cercato entrando a teatro! Eccola, la pre-adolescente che scopre il sangue del menarca e che non potrà più essere farfalla! Adesso siamo soddisfatti: abbiamo spiato per un’ora la bambina cercandone atteggiamenti da donna, e ora vediamo la donna che scopre di non essere più bambina. Ma Olga rimane lì, a fissare a lungo uomini e donne che potrebbero essere suoi genitori e suoi nonni, dall’alto dei suoi perfetti 11 anni, con il rossetto messo per gioco, con il rosso che imbratta il suo vestito bianco come per un gioco infantile finito male (a rischio sculacciata). Lei lì, alla fine di uno spettacolo tutto suo, in cui – bravissima – è stata sé stessa ed è stata i cento personaggi che la fantasia di una undicenne può inventare; e noi qui, che dal basso della nostra età appiattita su retro-pensieri (magari, spesso, venati di implicazioni erotiche), crediamo di vedere ciò che non è e che sta solo nella nostra mente. Noi, uomini e donne, ridotti a tanti Humbert Humbert che proiettano sul gioco di una bambina i loro fantasmi. Senza rendersi conto che non siamo noi a guardare Lolita, ma è Olga che guarda noi. Perché Lolita è solo un gioco. E per un’ora si è svolto in platea, nelle teste degli spettatori. (visto al debutto, al Napoli Teatro Festival, 15 giugno 2013)
Una porzione della fitta programmazione della sesta edizione del Napoli Teatro Festival Italia articolata dal 4 al 23 giugno era focalizzata sulle donne con un’affascinante galleria di protagoniste tratte dal teatro classico come Desdemona o da testi originali e dalla forte carica sperimentale come Lolita. Iniziamo il nostro breve report da quest’ultimo ospitato nella sala cinema del museo. Olga Bercini è una ragazzina di 11 anni, lunghi capelli castani, graziosa e intelligente e presta corpo e voce al personaggio di Lolita, unica protagonista dello spettacolo omonimo prodotto dal festival in collaborazione con Babilonia Teatri. Valeria Raimondi e Enrico Castellani, i due registi, sono al festival per la seconda volta dopo The Rerum Natura, la fortunata produzione presentata nell’edizione 2012 del festival. Il loro lavoro guarda alle vicende quotidiane interpretate da attori non protagonisti bambini, disabili o malati cronici spesso tenuti ai margini dell’interesse teatrale. In Lolita l’azione drammaturgica scaturisce dalla messa in scena di un testo non rigidamente strutturato. Olga/Lolita resta sul palcoscenico per un’ora e la scatola teatrale diventa la stanza di una ragazza all’alba dell’adolescenza. Legge al computer brani segreti tratti da un diario, si pettina, ascolta la sua musica preferita, fa qualche mossa di karate, di tanto in tanto si annoia, osserva il mondo per poi congedarsi con una veste insozzata di sangue forse mestruale, dopo aver affrontato con il candore di ragazzina il macabro racconto del suo rapporto con il cibo, tema femminile di costante attualità.
Raimondi e Castellani hanno immaginato lo spettacolo attorno alle abitudine quotidiane di Olga, alle sue reali passioni, hanno limato per un anno gli elementi che venivano fuori da un lavoro che è in gran parte frutto di libere improvvisazioni. I tempi delle azioni non sono quelli convenzionali del teatro bensì quelli stabiliti e calzati a misura di ragazza. Resta molto convincente l’idea di fondo di rendere gli episodi di vita ordinaria una straordinaria occasione di riflessione sul mondo giovanile e più in generale sulla considerazione che un’adolescente ha di sé in una fase esistenziale profondamente critica. Ci vuole sensibilità e saggezza per raccontare la trasformazione del proprio corpo e la nuova percezione del mondo da parte di un giovane individuo che si proietta in quella che Joseph Conrad identificava con la linea d’ombra. Si affacciano i primi turbamenti dell’anima, l’individuazione di un mondo interiore con il quale cominciare a prendere faticosamente dimestichezza. Provare a vestire la propria vita come un abito buono per tutte le occasioni è il lavoro di un’esistenza intera ma il manifestarsi di questo lavoro che è una fatica vera e propria appare qui con tutta la sua incontrollabile e inarrestabile spinta alla vita di una giovanissima donna. Attraverso la sponda letteraria offerta da Lolita, il romanzo di Vladimir Nabokov, entriamo nella vita e nell’appropriazione della propria identità da parte di una ragazza che vive con difficoltà i pesanti condizionamenti della cultura dominante. Con determinazione Lolita mette in discussione la famiglia, i suoi coetanei, la scuola, i modelli di una società forse al tramonto dell’era più spiccatamente consumistica. Hayao Miyazaki, il regista e disegnatore giapponese di animazione, tra i più sensibili osservatori dell’adolescenza, ha scritto storie memorabili sui bambini in crescita. Lolita racconta come in una soggettiva cinematografica quello stesso passaggio, sola nel pieno del processo di trasformazione il personaggio teatrale costruisce l’impalcatura della sua età adulta, corazzata e pronta alla battaglia della vita come solo un adolescente sa esserlo.
C’era grande attesa per il debutto del nuovo lavoro dei Babilonia Teatri, dal titolo Lolita, prodotto e presentato dal Napoli Teatro Festival Italia, anche perché si può dire senza timore di smentita che la compagnia veronese sia l’unica compagnia nazionale giovane di una certa rilevanza ad occuparsi di sperimentazione teatrale ad essere presente nel cartellone principale del festival. Questo a dimostrare come il lavoro del gruppo guidato da Valeria Castellani ed Enrico Raimondi abbia raggiunto un prestigio ed una diffusione tale da aver travalicato i confini off in cui si muovevano per raggiungere manifestazioni di assoluto livello internazionale.
Babilonia Teatri ci sbatte subito in faccia il presente (e il futuro) attraverso gli occhi di una ragazza, Olga Bercini, poco meno che adolescente, motore e Lolita del gioco in cui il collettivo veronese ci vuole immergere, in cui non si parla di lei (e da qui la cantilena monologante e distaccata con cui Olga ci trasporta per tutto lo spettacolo) ma dell’archetipo di una società, che colpisce soprattutto chi è più indifeso, giovani in primis. Una società in cui l’esposizione del corpo la fa da padrona, e per questo legittima la performer ad esibirlo, attraverso salti con la corda, pugni e calci a mo’ di arti marziali, balli su canzoni pop cantate in playback, il trucco esagerato, fino all’epilogo, molto crudo e ricco di dettagli, in cui emerge tutto il disgusto e l’inevitabilità della situazione. Un martirio, quello compiuto dalla società sulla ragazza, impossibilitata a essere ciò che non può essere. Viene evitata però una deriva moralista, che pure è dietro l’angolo, in parte per la forza dello spettacolo di essere accennato, suggerito e non esplicitato.
Gambe incrociate, sguardo incollato al pc, Lolita siede al centro di una cameretta senza pareti, di una stanzetta senza pupazzi, di un mondo senza disegni. Unica amica una farfalla che non sa volare, appesa a un gancio come carne al macello. I pensieri, quelli da chiudere col lucchetto, da confessare a un diario segreto, da nascondere in un cassetto, scorrono uno a uno sul fondale, sillabe bianche su un foglio nero. Le parole, irriverenti, scomode, quelle che i Babilonia Teatri hanno masticato e sputato in questi anni sui palcoscenici italiani, stavolta non erompono subito sulla scena, all’inizio restano ingolate, strette tra labbra serrate.
Non ritroviamo, in questo spettacolo, la modalità frontale e l’immobilità che hanno caratterizzato i precedenti, da “Made in Italy” a “Pornobboy”, e non riascoltiamo il dialetto che s’impasta con l’italiano, perché “Lolita” s’inscrive nel solco di un nuovo e ulteriore sentiero – inaugurato con “Pinocchio” – che del ‘vecchio’ mantiene immediatezza, ruvidezza, forza fisica e espressiva. A essere indagato non è il vissuto, com’è stato nel penultimo lavoro, piuttosto la ricerca di un’identità.
Entriamo nella storia di un’undicenne con capelli lunghi e occhi marroni, sirenetta che ruba nome e titolo al romanzo di Nabokov, bambina che prova mosse di karate, bambinetta che canta in playback, ragazzetta con incubi da donna. È fatta, Lolita, di gonne che le hanno messo e orecchini che le hanno appiccato. È cresciuta tra divieti che le hanno imposto e frasi che le hanno sussurrato. Ha sognato principi azzurri, si è imbattuta in lupi. Si è bloccata a un’età di mezzo, tra adolescenza e giovinezza, ferita da occhi che l’hanno adorata e sguardi che l’hanno spogliata.
Colpisce per energia e presenza scenica Olga Bercini, che già avevamo visto dividere il palco con Valeria Raimondi e Giovanna Caserta in “The rerum natura”. Si sposta nello spazio agile, disinvolta, salta la corda, si sdraia sul pavimento, rincorre le note di una canzone d’amore, scandisce rime taglienti.
Che siano digitate dalla regia in tempo reale, che siano registrate, o consegnate a un microfono, le parole dei Babilonia restano il marchio rabbioso di un teatro arrabbiato. Quella tiritera caustica, quella filastrocca sarcastica, quella sequela urticante che abbiamo imparato a riconoscere, sfocia nel terribile racconto di un suicidio. E il rigurgito verbale dell’epilogo lascia una sgradevole, nauseabonda, sensazione di malessere.
Nessun piazzato di luce abbacinante sparato in scena, nessuna musica punk o grunge schiaffata nelle orecchie, non ancora. Dopo una lunga attesa a sala già
mezza spenta, in attesa dei soliti ritardatari, la Lolita di Babilonia Teatri si concede un incipit eccezionalmente poetico. Un occhio di bue mobile conduce dal fondo della platea al centro del palco la piccola Olga Bercini, che fa volteggiare una farfalla giocattolo tra pollice e indice e la appende a un gancio portato giù dal soffitto, prima di prendere posto a gambe incrociate, testa bassa. Sul telo nero alle sue spalle le parole compariranno, emergendo dal buio, composte in tempo reale da un terminale in regia. Il testo scarno e arrabbiato procede per invettive, elenchi e per (quasi sempre) sottili variazioni di forma e fonetica, graffiando la superficie dei concetti fino a far sanguinare via luoghi comuni, stereotipi e usando un potente scarto ironico per vincere la vertigine moralista e tramutarla in ruggito critico. Queste, insieme alla messa in guardia circa la totale assenza di recitazione nel senso tradizionale del termine, potrebbero essere le prime indicazioni per avvicinarsi all’estetica di Babilonia Teatri, al secolo Enrico Castellani e Valeria Raimondi, esplosi ormai cinque anni fa con Made in Italy, il loro terzo lavoro, che aveva vinto il Premio Scenario 2007, era stata la miglior novità italiana/ricerca drammaturgica agli Ubu 2008 e il preferito dell’unica edizione di Vertigine nel 2010.
In questo nuovo lavoro, coprodotto dal Napoli Teatro Festival con il sostegno di Operaestate Festival Veneto, Babilonia Teatri non rinuncia a puntare una lente sul presente, cosa che di per sé oggi rappresenta l’unico requisito irrinunciabile di un teatro che conti e sembra esplorare un ragionamento sottile: il celebre personaggio della ninfetta amata dal professor Humbert Humbert viene sottratto al celebre romanzo di Vladimir Nabokov per poter essere restituito agli spettatori non tanto come un simbolo di iniziazione alla vita e di educazione alla percezione della bellezza, quanto come perversione fondamentale cui il mondo contemporaneo non potrebbe ormai a nessun costo rinunciare. Lolita è una farfalla, Lolita è un sogno, Lolita è un incubo. Ma – dichiara la ragazzina quando parla senza intonazione nel microfono – Lolita non è lei, di lei si racconta la storia. A questo sfacciato diario segreto manca – programmaticamente – il trasporto emotivo, la dolcezza che sgorga via dalla bambina come sangue da una ferita o come gli umori che la faranno donna. Humbert scompare dentro un’allegoria estrema, diventa il nome comune (mai davvero pronunciato) per tutta una collettività mediatica che osserva e per la quale quell’innamoramento senza difese e reo confesso diventa necessario perché imposto dalle stigmati di una società che di per sé impone i propri modelli.
Quella società che, tra le canzoni trash-pop cantate in playback, hard rock al femminile e un tappeto sonoro che si inserisce qua e là con scrosci, fruscii e latrati
della natura più selvaggia, dichiara tutta la sua brutale contraddizione.
C’è poi, sopra ogni altra cosa, l’esposizione del corpo: Olga salta la corda, allena pugni e calci nelle forme delle arti marziali, indossa vestiti “à la Marilyn” su cui il
trucco colerà come sangue, il sangue come trucco, fino a un terribile epilogo – cruento ed estremo nel tema e dei dettagli – affidato di nuovo, nel silenzio, alle
lettere scritte sul telo. La sua è una prova coraggiosa, quello di Castellani e Raimondi somiglia a un tentativo di conservare i principi della propria estetica
ridistribuiti su altri elementi.
CHIARA LIMELLI, LOLITA, IL CORPO FEMMINILE E IL SUO UTILIZZO MEDIATICO, WWW.LADIGETTO.IT, 16/06/2013
Il nuovo spettacolo di Babilonia Teatri in prima mondiale ieri al «Napoli. Teatro Festival Italia», protagonista l’undicenne Olga Bercini
«Lolita è un sogno, un brutto sogno. E’ un incubo. Sono pensieri e segreti consegnati a un diario, pensieri di una ragazzina che corre, che salta, cammina sul filo. Una ragazzina che ha pensieri di donna. Lolita è un urlo e uno sberleffo insieme. È un gioco dove non è chiaro il limite tra verità e finzione.»
Che fosse uno spettacolo «impegnato», non retorico e denso di elementi di riflessione lo avevamo già intuito dalle note di sala dello spettacolo.
Quello che non avevamo immaginato è la bravura e la capacità di tenere la scena della giovane protagonista, l’undicenne Olga Bercini.
Perfetta nel ruolo che Enrico Castellani e Valeria Raimondi di Babilonia Teatri le hanno cucito addosso. Attraverso gli occhi del suo personaggio, Lolita, ispirato alla protagonista dell’omonimo, scabroso romanzo di Vladimir Vladimirovic Nabokov, viene raccontato il corpo femminile e la sua influenza sulla percezione del ruolo della donna nella società di oggi.
Lolita, non più bambina ma non ancora donna, pone con un linguaggio diretto e tagliente delle domande sui condizionamenti della società e dei suoi modelli.
Lolita è la voglia di bruciarsi. È l’esempio vivente di come innocenza e malizia, purezza e artificio, candore e doppiezza possano convivere.
Come gran parte delle sue coetanee gioca al salto della corda, canta a squarciagola, ama le storie costellate di streghe, fate e mostri (la sua preferita è «La donna gatto»). Nella testa però le frullano pensieri da donna navigata, considerazioni amare, elucubrazioni di chi pare abbia già capito tutto della vita.
Lolita vuole un principe che non abbia bisogno di inutili parole. Un principe senza tempo e senza età. Azzurro come il mare e come il cielo e ben consapevole di essere solo uno dei tanti che Lolita incontrerà nel suo cammino.
Ha paura di crescere Lolita: l’ultima cosa che vuole è «finire come il canarino Titti».
«Non mi tarperete le ali – dice con aria di sfida – non mi chiuderete in una gabbia. Non diventerò come voi».
E ha ragione la piccola Lolita. Proprio come una farfalla, in un finale shock se ne va volando via, libera nell’aria.
Lolita è un pugno che ti entra dritto nello stomaco.
Lolita è un grido. Lolita è un monito.
Lolita, nel bene e nel male, nel piccolo e nel grande, è ognuna di noi.
Il risultato è uno spettacolo in perfetto stile Babilonia Teatri (una delle più brillanti e rivoluzionarie realtà italiane del teatro di ricerca) dalla forte personalità, privo di retorica, lontano dai cliché, che riesce ad appassionare e che invita a riflettere evitando di incappare negli stilemi della donna oggetto, delle quote rosa o delle pari opportunità.
Lolita mette lo spettatore di fronte alle contraddizioni in cui viviamo, sviscerandole senza ipocrisia e, al tempo stesso, senza la presunzione di fornire risposte univoche e definitive.