PINOCCHIO

Perchè Pinocchio?
Perchè farlo con persone uscite dal coma?
Ci è stato dato un indirizzo.
Via Altura, 3 – 40139 Bologna.
Siamo arrivati.
Davanti a noi un ospedale.
Abbiamo chiesto se era lì la sede della compagnia “Gli amici di Luca”.
In fondo al corridoio sulla sinistra: Sala del Durante.

Domanda nostra:
perchè fate teatro?

Risposta loro:
La società ci ha respinti, accantonati, isolati, fare teatro è l’unica possibilità per tornare a mettere un piede dentro la società.
Il teatro ci permette di tornare a realizzarci, ad affermarci, a riconoscerci. C permette di gridare il nostro malessere, di rivendicare il nostro ruolo, di esprimere la nostra umanità.

Ci siamo innamorati di loro. Della loro autenticità. Della loro imperfezione. Della loro sporcizia.
Abbiamo trovato in loro uno specchio della società reale.
Persone lontane da noi.
Con vissuti, esperienze e modi di pensare che non ci appartengono, che non
appartengono alle persone che frequentiamo.
Abbiamo incontrato quel mondo che sempre vogliamo fotografare, raccontare e restituire.
Un’umanità da ascoltare e amplificare senza pietismo, paternalismo nè razzismo.

Pinocchio è la loro umanità.
Le loro e le nostre debolezze e incoerenze.
L’eterno contrasto tra innocenza e consapevolezza: assunzione o fuga dalle responsabilità.
Pinocchio è una scelta di campo.
Ascoltare il grillo parlante o il gatto e la volpe, andare a scuola o entrare nel teatro di
mangiafuoco, seguire lucignolo o chiedere consiglio alla fata, ubbidire al padre o fare di
testa propria.

Pinocchio è le nostre tentazioni. Le nostre contraddizioni. Le nostre bugie.

Pinocchio corrisponde al nostro bisogno di fare un teatro necessario. Un teatro dove la vita irrompe sulla scena con tutta la sua forza senza essere mediata dalla finzione. Dove l’attore non attore mette in gioco il suo vissuto, la sua inconsapevolezza, la sua sincerità. Dove ad essere determinanti non sono la perizia e la tecnica ma la verità di corpi e vite che parlano da soli.

È questo il paese dei balocchi?

CREDITI

Premio Associazione Nazionale dei Critici di Teatro 2013

di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani
con Enrico Castellani, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli e Luca Scotton
collaborazione artistica Stefano Masotti e Vincenzo Todesco
scene, costumi, luci e audio Babilonia Teatri
organizzazione Babilonia Teatri e BaGS Entertainment
grafiche Franciu
foto di scena Marco Caselli Nirmal
produzione Babilonia Teatri
collaborazione Operaestate Festival Veneto
con il Contributo di Comune di Bologna e Regione Emilia Romagna
patrocinio Emilia Romagna Teatro Fondazione
promozione BaGS Entertainment www.bagsentertainment.com
residenza artistica Babilonia Teatri e La Corte Ospitale

Pinocchio è un progetto di Babilonia Teatri e Gli amici di Luca
laboratorio teatrale presso la Casa dei Risvegli Luca De Nigris
realizzato col contributo della Fondazione Alta Mane-Italia
ringraziamo Laura Bissoli, Cristiana Bortolotti, Cristina Fermani, Fulvio De Nigris, Eloisa Gatto, Irene Giardini, Nicola Granata, Giovanna Grosso, Marco Macciantelli, Francesca Maraventano, Juri Mozzanti, Cristian Sacchetti, Davide Sacchetti
produzione 2012

Sempre assolutamente geniali gli autori/registi di Babilonia Teatri, Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, capaci ogni volta, e meravigliosamente, di toccare tematiche, situazioni estreme, con una sensibilità, un’intelligenza teatrale del tutto sorprendenti. Si ride spesso -risate aperte e piene, dirette e calorose-per questo “Pinocchio”, protagonisti Enrico Castellani, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli e Luca Scotton, ma in questo divertimento libero, sciolto, immediato, si avverte nello stesso tempo uno strano miscuglio di stati d’animo, di vasta commozione, in un equilibrio di suprema cura e rigore teatrale in cui i Babilonia sono assoluti maestri. Una poetica che, nell’apparente semplicità, affronta le sfide più ardue con una misura prodigiosa, tra estrema delicatezza e massima audacia.

Pinocchio vive molteplici metamorfosi, soffrendo per questo. Morte rinascite in altre forme. Anche chi si risveglia dal coma si trova cambiato profondamente. Lunghi i tempi della riabilitazione. Difficile riavvicinarsi alla vita di un tempo. Nel cuore dello spettacolo i tre interpreti saliti sul palco a torso nudo, svelano alcuni segni di quel passaggio sospeso tra la vita e la morte. Esperienze reali. “Pinocchio” è nato con “Gli amici di Luca”, grandissimo teatro, divenendo ogni passaggio, anche d’assoluta verità, carico di molteplici sensi, dubbi, metafore, in una densità di pensieri che lasciano comunque intatta l’emozione, profondo il turbamento.

Motivazione Premio Associazione Nazionale dei Critici di Teatro

RASSEGNA STAMPA

La locandina di Pinocchio -lo spettacolo di Valeria Raimondi ed Enrico castellani che Babilonia Teatri presenta nella sala Assoli insieme con gli amici di Luca, l’associazione teatrale formata da persone uscite dal coma- mostra un letto d’ospedale sul cui lenzuole bianco è scritto tra l’altro: “Perdere il passato. Non trovare il futuro”. Ciò che significa, in pratica, la riduzione della vita al solo presente. Ovvero, per l’appunto, al teatro, che infatti, conosce unicamente l’opzione del presente.

In breve, qui si realizza al massimo grado di concettualità e poesia quello che da sempre è il credo teorico di Babilonia Teatri: “Un teatro dove la vita irrompe sulla scena con tutta la sua forza senza essere mediata dalla finzione”. Perchè, lo ripeto ancora una volta, la maledizione del teatro sta nel fatto che, per sua natura, è costretto a fingere la vita nel momento stesso in cui vive. E gli attori/non attori in campo nella circostanza compiono il miracolo di tramutare quella maledizione in grazia: fingono la recitazione nel momento stesso in cui recitano.

Essi, in altri termini, sono in una perenne condizione di attesa: l’attesa di una vita vera; e in questo somigliano a Pinocchio: il quale, lo sappiamo, attende di tramutarsi da burattino in bambino. Senonché -essendo usciti dal coma ed essendo privi, come recita la locandina dello spettacolo, sia del passato che del futuro- si trovano fuori della storia e non possono, di conseguenza, elaborare un progetto di vita. Possono soltanto esibire -pungolati dalla voce dello stesso Castellani nella veste di una sorta di domatiore/psicanalista- la verità assoluta dei loro corpi segnati da cicatrici e menomazioni.

Avete capito, allora. I nostri attori/non attori somigliano, più che al Pinocchio di Collodi, a quello di Carmelo Bene: il lieto folle che -calato in un mero processo, avviato su una strada lastricata di semplici momenti- si rifiuta strenuamente di crescere perchè strenuamente abbracciato alla propria innocenza. Ed è per questo, poi, che dalle menomazioni fisiche si libera una comicità anarchica e irresistibile. Come quando, appena sveglio, uno di quei burattini di carne chiede subito all’infermiera: “Me la dai?”.

Sono in scena Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli e Luca Scotton. E a commentare la sequenza finale arrivano prima i Beatles con Yesterday (“Improvvisamente non sono l’uomo che ero, c’è un’ombra che sta sopra di me”) e poi Vasco Rossi (“Voglio una vita spericolata”).

La metafora di Pinocchio è molto azzeccata: un pezzo di legno che prende vita e la vita che diventa pezzo di legno. Usano la fiaba di Collodi quelli di Babilonia teatri (testo e regia sono di Valeria Raimondi e Enrico Castellani) per portare in scena il loro Pinocchio, nato dalla collaborazione con Gli amici di Luca, l’associazione che assiste chi vive nel coma cercando di portarli al risveglio e che, soprattutto, sta vicino alle loro famiglie. Il sipario del Morelli è aperto quando il pubblico entra in sala. Sembra di assistere, per qualche istante, al CinicoTv di Ciprì e Maresco: un uomo panzuto (Luca Scotton), se ne sta a petto nudo seduto su una delle tre sedie posizionate in fondo al palco dove pian piano sale il primo individuo, sempre a petto nudo così come lo farà chi lo segue. Il suo nome è Paolo Facchini, dopo di lui con passo claudicante, arriva Luigi Ferrarini con indosso un’imbracatura. Anche l’ultimo a salire zoppica un po’, è il giovane Riccardo Sielli. In comune hanno l’essere tutti e tre pensionati (per invalidità), e di aver vissuto in stato di coma. Facchini s’è fatto 35 giorni dopo aver avuto un incidente d’auto, Ferrarini due mesi perché “un platano è andato addosso alla sua macchina” così come Sielli che in un giorno del 1998 s’è visto sbalzare via dalla sua moto per colpa di un automobilista. Una voce intervista i tre, è quella di enrico castellani, che con questo espediente fa raccontare ai protagonisti sia la loro vita prima del coma, sia lo stato di sonno profondo, sia come ci si è risvegliati da questo e cosa è accaduto dopo. Le interviste di Castellani servono anche a guidare un gruppo di persone “difficili” ma che davanti alla difficoltà che la vita gli ha imposto hanno saputo reagire ognuno a proprio modo e con l’aiuto degli Amici di Luca. Le domande riportano anche all’originale testo di Pinocchio: tutti e tre sono in cerca della fata, uno è stato nel paese dei Balocchi, un altro nell’aperta campagna alla ricerca di sicurezze, un altro ancora si libra in volo. Ecco proprio su questa scena c’è un piccolo giallo che riguarda la data cosentina. Castellani spiega che Ferrarini (indubbiamente il personaggio più simpatico di tutti perché riesce a ridere e a far sorridere dei segni che due mesi di coma hanno lasciato sul suo corpo), in questo punto dello spettacolo viene sollevato in aria ma un tecnico del Comune ha impedito che ciò si facesse anche a Cosenza perché sarebbe potuto accadere una vicenda simile a quella avvenuta durante la tappa reggina del tour della Pausini, un anno fa, quando il palco collassò e perse la vita un operaio. Ci sta che le travi del morelli non possano sorreggere una scena del genere ma si poteva decisamente scegliere un esempio meno infelice per spiegare il divieto. In sala si ride perché i momenti, volontari o involontari, di comicità si vengono a creare ma c’è anche chi ha gli occhi gonfi di lacrime perché il racconto dei tre è veramente doloroso in alcune parti, narrazione scenica che non tralascia momenti di teatro puro. L’ex viveur Facchini, Ferrarini e il già dj Sielli sono seduti mentre scorrono nelle loro mani le parole di rimpianto della Yesterdaydei Beatles. Uno ieri diverso il loro, ovvio, ma del domani dimostrano di non aver paura.

Il teatro può essere davvero luogo di impegno civile. Altro che le nomenclature altisonanti in odore di autoreferenzialità. Altro dalla vanità incipriata e in costume. Altro dalle cocciutaggini sterili e i piumaggi tipici di un ambiente, quello dei teatranti, che dimostra in alcune misere (e singolari, fortunatamente) situazioni di non avere contatti con la realtà, ma di plasmarsi nel proprio mondo. La realtà pragmatica, vera, corrente fuori dal palco, che accade. La realtà con pustole di disagio. Cui il palco dovrebbe fare luce. Restituire i vissuti attraverso l’efficacia della comunicazione diretta con la platea. Non aspettare solo applausi o parole buone per compiacersi. Suscitare afflato, commozione, sensibilizzazione. Lasciare tracce.

I Babilonia Teatro lo sanno bene. E lo fanno, ancora meglio. Non a caso lo spettacolo ‘Pinocchio’, messo in scena venerdì scorso al Teatro Morelli di Cosenza, quinto appuntamento della rassegna “More Fridays”. Il gruppo è stato insignito quindici giorni fa del ‘Premio della Critica 2013’ dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro. Con queste parole, tra le altre, nella motivazione: “Sempre assolutamente geniali gli autori/registi di Babilonia Teatri, Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, capaci ogni volta, e meravigliosamente, di toccare tematiche, situazioni estreme, con una sensibilità, un’intelligenza teatrale del tutto sorprendenti.” Lo spettacolo è arrivato al cuore e allo stomaco della platea cosentina. Con consenso generale.

Per la semplicità con cui la scena disarma gli astanti. Soffocando da principio pretese di virtuosismi e tecnicismi, che non vuol dire assenza di rigore di soluzioni e grammatiche. Per la commozione (estetica e sensibile) avvertita per tutto il tempo percorso – a cui fanno seguito 5 minuti pieni di applausi ininterrotti – Per la nudità – sotto la luce naturale, fissa, che rimanda ad uno stretto contatto con il naturale circostante, all’aderenza al reale – con cui le metamorfosi, le metafore, i costrutti scenici, la dialettica, la ‘guida’ registica vengono date in pasto al pubblico. Per il senso di catarsi puro – “Noi proviamo piacere a vedere le immagini, le più precise delle cose, la vista delle quali è dolorosa nella realtà” (Aristotele) – approdato quale senso di comprensione collettiva tra simili. Uno spettacolo destinato a scolpire memorie e coscienze, frutto di sapienza drammatica e coraggio, sensibilità e senso civico.

I tre attori in scena, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli, saliti sul palco a torso nudo, dalla platea – la società civile che si rivede e rivive in mimesi sulla scena – hanno avuto esperienze di coma profondo. Più o meno lunghe. Risvegliandosi non ricordando nemmeno il nome. ‘Un pc azzerato dai file’ il commento di uno dei tre per spiegare al pubblico la condizione. E un ritorno in se, graduale, non completo, frammentario, non più identico. Come Pinocchio che rivive mille metamorfosi e altrettante rinascite per poi essere uomo, bambino, in carne e ossa. “Bisogna avere pazienza, tutto si sistema”, da fuori campo il regista Enrico Castellani ripete al culmine delle scene madri. Incastonate a disciplina di linguaggio drammatico, tra le presentazioni dei personaggi, i dettami d’interazione e le soluzioni di dipanamento. E ancora la leggerezza dei dettati autentici, le partiture ‘canoniche’, da Stanislavskij a Brecht, le iconografie contemporanee. Ma servirebbe poco, altrimenti, a descrivere lo spettacolo senza addentrarsi nelle visioni oculate e competenti. Basterebbe parlare di emozioni.

La nuova stagione di Teatro Contatto, sotto il segno delle Differenze, si è aperta l’altra sera al Palamostre con Pinocchio, ultimo lavoro dei Babilonia Teatri, che mette in scena tre persone alle prese con una vita da riprendersi, dopo che questa era stata loro interrotta dal blackout del coma. E allora eccoli lí, avanzare con movimenti legnosi, sulle note dolciastre di Carissimo Pinocchio, dalla platea verso il palcoscenico, dove ad attenderli c’ è un Pinocchio (Luca Scotton), servo di scena, in pantaloncini, come loro, e un lungo naso di carta. Arrivano e si schierano in prima e, stimolati dalle domande del regista che, fuori campo, li guida in questo loro svelarsi, si presentano, nome, cognome, età, libro preferito, l’ incidente che li ha segnati, il primo risveglio… con un’ autenticità che spesso esonda dal copione, divertenti e divertiti, ironici e autoironici. Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli sono usciti, come Pinocchio dal legno di burattini, da un lungo e nero tunnel di incoscienza. E sono lí in scena a raccontarla, viverla questa loro faticosa rinascita, in una rappresentazione che sfida il teatro sul piano scivoloso di una realtà dura e dolorosa. E, sulle tracce del romanzo di Collodi, romanzo di formazione, Pinocchio registra questo percorso. Un percorso che, nello spettacolo si concreta in alcuni momenti di una certa intensità, come nella rievocazione che i tre fanno del loro mondo dei balocchi (quello in cui la loro vita si era fermata), o nella descrizione dello loro fata turchina ideale, come nella rievocazione del loro ieri (sulle note di Yesterday dei Beatles) e, giocando con automobiline e pupazzetti di peluche, nelle aspirazioni a quella vita disordinata (sparata a mille da Vasco Rossi) che fa pugni con il loro difficile presente. E come per i tre interpreti la vita con le sue imprevedibilità ha lasciato segni profondi, cosí Pinocchio sfida lo spettatore a relazionarsi con un teatro che si vuole ed è diverso. Sfida pienamente riuscita, a giudicare dagli applausi lunghi e calorosi piovuti alla fine.

Il Pinocchio di Babilonia Teatri ha aperto la stagione Differenze del Css con un grande carico emotivo, calato su un Palamostre che non ha nascosto la sua commozione, sciolta in un lungo applauso finale. Valeria Raimondi ed Enrico Castellani hanno creato questo spettacolo a partire dall’ incontro con Gli Amici di Luca, associazione nata per dare supporto a chi ha vissuto il coma. Sul palco arrivano ciondolando a fatica tre sopravvissuti all’ esperienza, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli, con addosso solo dei boxer. Ad aspettarli c’ è un debordante Pinocchio con tanto di naso di carta, Luca Scotton, che è un silenzioso servo di scena. Perché lì in mezzo è la vita dei protagonisti ad irrompere, narrata attraverso un canovaccio morbido e dialogico condotto magistralmente dalla voce in fondo alla sala di Castellani e intrecciato a una colonna sonora che va dai Guns N’ Roses a John Lennon. Diventa fluido, divertente e doloroso il loro racconto sull’ incessante lavoro di ricostruzione per essere uomini, attraverso i corpi segnati e il linguaggio inceppato. Non si cade mai nella retorica perché l’ ironia permette una poesia ruvida, che non ha bisogno di trucchi ma solo di una robusta imbragatura, come quella che permette a Luigi di sollevarsi in aria per farci volare.

«Pinocchio»dei Babilonia Teatro racconta una rinascita faticosa di tre sopravvissuti, con umanità e ironia.

NON È CERTO UNA FAVOLA IL«PINOCCHIO»DI BABILONIA TEATRI NÉ VUOLE ESSERLO. Semmai è l’elaborazione di un percorso di vita interrotto e precipitato improvvisamente nel buio del coma. E poi la risalita, il risveglio, con una gran voglia di riafferrarla, per quello che è, la vita che resta: non un immaginario paese dei balocchi ma una rinascita faticosa, da vivere tutta intera con quella ironia, con quella estraneità stralunata ma umanissima che a volte hanno quelli che hanno vissuto questa esperienza estrema.

Per scelta dediti a un teatro a sua volta estremo nei contenuti che ha spesso per protagonisti gli ultimi e il degrado di una società, Valeria Raimondi ed Enrico Castellani hanno costruito questo Pinocchio, in scena al Teatro Elfo Puccini, dopo l’incontro con Gli Amici di Luca, compagnia formata da persone che sono uscite dal coma e il burattino di legno diventato ragazzo in carne ed ossa dopo una vita scapestrata è la falsa riga Immaginaria della loro storia vera.

I tre protagonisti infatti – Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli – sono tre uomini precipitati nel buio dopo un incidente e poi ritornati faticosamente alla vita. Sono dei sopravvissuti e lo sanno e hanno una gran voglia di prendersi una piccola vittoria sulla vita che gli ha giocato un brutto scherzo.

Scelta non facile quella di Raimondi-Castellani, ma il rischio di farne una cronaca magari anche partecipata ma sostanzialmente banale è superato per la tensione e la maturità espressiva che riescono a comunicarci. Non un teatro verità, ma un teatro che sa usare fino in fondo quello che è davvero suo: la rappresentazione non della vita vera ma di una vita parallela che non è mai una fuga, ma una presa di coscienza.

I tre arrivano in scena dove li attende seduto in mutande un Pinocchio in carne ed ossa con un finto naso di cartone (Luca Scotton) che non dirà mai una parola, ma a un certo punto li guiderà in alcuni esercizi fisici. Due sono a torso nudo e in pantaloncini, uno in mutande e con un’imbragatura da paracadutista, pronti a essere sottoposti al fuoco di fila delle domande che la voce fuori campo di Enrico Castellani fa a ciascuno di loro – che cosa si ricordino del coma, età, altezza, libri letti, quale sia il loro tipo di donna – attento a che non sforino dalle «regole» per arrivare a dirci che il mondo dei balocchi di cui si favoleggia è dentro di noi, che il burattino Pinocchio «imbragato» dal legno è simile allo stato di coma vissuto dai tre, che però hanno avuto la fortuna di andare oltre, di spiccare il volo come fa Paolo Facchini sollevato verso l’alto da dei tiranti. Uno spettacolo da vedere, commovente e forte.

È IRONICO e struggente, pieno di vita vera e insieme di una teatralità diretta e potente il Pinocchio che Babilonia Teatri ha allestito con i pazienti usciti dal coma. La ricerca dura, gridata, punk, di Valeria Raimondi e Enrico Castellani, tra i talenti più forti della nuova scena, qui si mette alla prova con non-attori e una materia scivolosa, difficilissima. I tre ex pazienti, seminudi sul palco, esibiscono i loro corpi segnati e si raccontano non senza divertita esuberanza a Castellani, voce fuori scena che li interroga, mentre la favola di Collodi fa da controcanto poetico che evoca desideri, dolori, momenti della vita di “prima”.

Una drammaturgia all’apparenza improvvisata, che respinge ogni pietismo e colpisce nel segno con immagini e azioni teatrali di forza dirompente.

DOPO lo sconvolgente The End dei giorni scorsi, incentrato sul tabù della morte, Babilonia Teatri alza ancora la posta con questo Pinocchio che ha per protagonisti tre uomini reduci dal coma. Anche qui si tratta di risvegli, come in Una specie d’Alaska di Harold Pinter visto da poco al Parenti. La differenza è che gli interpreti hanno davvero patito sulla loro carne l’assenza da se stessi.

Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli sono rinati dopo essere stati creature inanimate, burattini di legno come Pinocchio. Ora si raccontano sulla scena mettendosi eroicamente a nudo tra passione e ironia, in un dialogo serrato con una voce fuori campo, fino a trasformare anche i vuoti di memoria del coma in qualcosa di memorabile.

Con questo Pinocchio crudo e intenso, Valeria Raimondi ed Enrico Castellani insinuano in noi il sospetto che la realtà in cui faticosamente c’illudiamo di vivere non sia altro che una pinocchiesca, condivisa bugia.

ALLA FINE, le prevedibili ovazioni del pubblico hanno giustamente premiato la performance, perfino struggente, dei tre interpreti. Che gli applausi, tanto per intenderci, se li meritano tutti. Ma, mentre ero lì che battevo le mani, ho provato anche una specie di disagio. A cosa stavo davvero plaudendo? E a cosa si stavano rifiutando i pochissimi spettatori renitenti? Il sospetto che in fondo questo uppercut teatrale sia, volente o nolente, una speculazione sui nostri buoni sentimenti non sono riuscito del tutto a sgombrarlo.

In tal caso, questo teatro così programmaticamente oltranzista rischierebbe di rovesciarsi nel suo esatto contrario. Spero fortemente che non sia così.

Fino a domenica al teatro Elfo Puccini è di scena Pinocchio. Uno spettacolo realizzato dalla pluripremiata e innovativa Babilonia Teatri (ubu 2011) e dalla Casa dei risvegli Luca De Nigris, struttura bolognese per la riabilitazione dal coma. Sono proprio tre persone che hanno fatto la drammatica esperienza di un incidente stradale e il conseguente ritorno alla vita dopo i giorni di coma i protagonisti: Paolo, Gigi e Riccardo. I tre parlano con una voce fuori campo che introduce il loro personalissimo Pinocchio con intermezzi pieni di autoironia. Perché di una testa che non sta più dritta e abbassa l’altezza di Gigi si può sorridere dicendo che lo rende una persona ad altezza mobile. Basta farlo comprendendo che questa rappresentazione teatrale non ha nulla di pietistico, ma è uno strepitoso inno alla vita, in cui la celeberrima Yesterday dei Beatles sembra cucita addosso al prima e dopo che segna le loro vite. In cui la persona apparentemente più fragile sul palco si dimostra la più forte.

Capace di imbragarsi e volare.

Pinocchio di Babilonia Teatri, vale a dire di Valeria Raimondi e di Enrico Castellani (inscena al teatro Puccini di Milano dal 21), è uno spettacolo complicato. Non complicato da vedere, da descrivere o da apprezzare, laddove sul piano emotivo (ecco la prima difficoltà) è fin troppo semplice, fin troppo immediato.

Complesso, difficile lo è da capire, da valutare. Esso nasce dall’incontro tra Raimondi- Castellani e gli Amici di Luca. Stando a come Babilonia si definisce (e lo si vede dal suo pubblico, in prevalenza giovane) questo gruppo è per un teatro pop, per un teatro rock, per un teatro punk: «I nostri spettacoli sono dei blob teatrali, delle playlist cristallizzate, o uno specchio riflesso». Non sono convinto che siano definizioni giuste. A me sembra che Babilonia sia essenzialmente un teatro poetico-critico della nostra società: pop, rock, punk può essere anche questo, ma in sostanza è un’altra roba. I blob e le playlist sono un gioco al ribasso che gentilmente respingo. Pinocchio ha questa peculiarità. In scena ci sono quattro persone, attori/non attori (Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli) e Luca Scotton che è il silenzioso protagonista. Facchini e Sielli salgono in scena in pantaloni corti e a torso nudo, Ferrarini è in slip con una cintura intorno alle spalle. Raimondi e Castellani li hanno incontrati nella sala di un ospedale di Bologna. Vi facevano teatro. A

che scopo? La loro risposta: «Ci è stato dato un calcio nel c…, fare teatro è l’unica possibilità per restituirlo». S’intende che qui siamo in un contesto almeno in parte diverso dalla critica sociale. A chi restituire quel calcio se non alla vita? I tre sono sopravvissuti a un incidente, sono risaliti alla vita da un coma. I nostri registi si sono «innamorati di loro, della loro autenticità, della loro imperfezione, della loro sporcizia» (sporcizia linguistica, tutto ciò che esce dalla cultura come buone e belle maniere). Essi sono insomma «uno specchio della società reale». Castellani fa a ciascuno delle domande. Chiede l’età, l’altezza, che pensione abbiano (benché giovani), come si siano sentiti durante il coma e al risveglio, se leggano libri (Facchini cita VasquezMontalban), che donne gli piacciano, ovvero quale sia la loro «fata». Uno la vuole intelligente, un altro dinamica, un terzo maiala». Castellani li rimprovera se usano termini indecenti, a teatro inusuali, se non vietati. I tre si riallineano, per così dire. Sono usciti dalla griglia del copione. La parola copione la dice la voce che fa le domande. Ed è a questo punto che le domande se le fa lo spettatore. Sì, la realtà: il mito del teatro contemporaneo. Ma siamo nella realtà-realtà o nel copione? Quell’uscire dalle righe (quel «maiala») era previsto o non previsto? La complicazione deriva dal fatto che la cosiddetta realtà viene messa in cornice, e che ciò che vediamo è di per sé eccezionale, un caso, una serie di «casi» più o meno anomali, e che tutto ciò sta in un luogo (la cornice) che non riusciamo a definire. Sì, il paese dei balocchi, come ci viene suggerito, invero è dentro di noi. E, sì, è chiaro che qui il coma, per chi ne sia uscito, è ciò che il legno era per l’ex burattino Pinocchio: non per nulla Ferrarini viene agganciato e sollevato, vola in alto come il vecchio Cristo di legno degli spettacoli di Babilonia— poiché Cristo è risorto. Ma, ci chiediamo, questa emozione, la commozione che proviamo, di che specie è? Quanto è estetica e quanto è reale? O, viceversa, quanto è reale e quanto è estetica, consolatoria?

voto7

Entrano uno a uno, barcollanti come marionette: sono Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli.

Si muovono con difficoltà, hanno il corpo legnoso di chi ha subito un brutto incidente.

Sono dei reduci, perché tornati da un mondo “altro”, quello del coma.

Questo nuovo spettacolo di Babilonia Teatri (Premio Hystrio2012 alla drammaturgia), tra i gruppi più radicali della nuova scena italiana (vincitori con il precedente “The End” del Premio Ubu 2011 Miglior Novità Italiana-Ricerca Drammaturgia), è il risultato di un lungo laboratorio svolto con l’associazione Amici di Luca della Casa dei Risvegli Luca De Nigris di Bologna, che si occupa di assistenza durante il coma e della successiva riabilitazione.

I tre sfidano lo spettatore, abituato ai filtri del patetismo televisivo, mostrando con crudezza le difficoltà che ancora li condizionano. Sono lì, di fronte al pubblico, a torso nudo in bermuda o boxer, e non raccontano fiabe: dichiarano nome, cognome, età, interrogati, in modo leggero e divertito dalla voce del regista, proveniente dal fondo della sala. Sono andati in pensione giovanissimi, ma non sono falsi invalidi. Ricordano gli incidenti che li hanno portati in coma, sospesi nel buio come Pinocchio al ramo della grande quercia.

La fiaba di Collodi fa da sponda, è rievocata per associazioni: il paese dei balocchi diventa il luogo da dove è poi cambiata la loro vita, la fata turchina è la donna dei sogni, anche erotici.

E loro,come il burattino irrigidito dal suo corpo di legno, indomiti desiderano diventare qualcos’altro. È il dolore ad esigere che venga lasciata una traccia di sé. Solo salvandola dall’oblio del silenzio è possibile dare alla sofferenza un’occasione di riscatto, facendo di questa testimonianza.“Pinocchio” è uno spettacolo ruvido e delicato, che racconta il lato faticoso della vita, esibendo, senza violenza, chi lo ha provato.

Con Pinocchio salta ogni estetica, lo sguardo teatrale non tiene e alla fin fine non tiene neppure il riferimento al Pinocchio collodiano, perché la vita è più forte della sua rappresentazione, perché i corpi e le storie di Paolo Facchini, Riccardo Sielli e Luigi Ferrarini sono vita che risorge e pretende di essere. Pinocchio dei Babilonia Teatri —visto al Comunale— è un non/spettacolo, è non teatro, o forse è teatro perché in fondo è incontro di persone, è racconto di uomini usciti dal coma con una disperata vitalità buttata in faccia allo spettatore. E’ lo stesso regista Enrico Castellani a spiegare questo Pinocchio esploso fra le mani: «Volevamo fare Pinocchio, ma poi le storie di Paolo, Riccardo e Luigi hanno avuto la meglio e la storia collodiana è rimasta sullo sfondo» come segno di uno spettacolo che ha preso una via diversa. Babilonia Teatri ha lavorato con i ragazzi della compagnia Gli Amici di Luca, centro che da anni utilizza il linguaggio della scena per aiutare a ridare una relazione e socialità a persone uscite dal coma, molto spesso in seguito a incidenti stradali.

La scena in Pinocchio è vuota, Paolo Facchini in bermuda beige, Luigi Ferrarini imbragato mostra i segni del suo post-coma in una fisicità piegata, Riccardo Sielli è delle parti di Rubiera e mostra un bell’accento emiliano che rincuora. A fianco a loro Luca Scotton nella sua pingue fisicità con indosso un naso di carta alla Pinocchio. Dalla regia Enrico Castellani fa loro delle domande, chiede di raccontare la loro storia, se sono alla ricerca della loro Fata, chiede loro di dirsi, ma anche di elencare personaggi e luoghi del romanzo collodiano, di dire chi sono oggi e chi erano ieri, con una serie di cartelli che straziano il cuore. Questo è Pinocchio: un incontro con la sofferenza e la voglia di andare oltre quell’incidente, di andare oltre il tunnel nero per riemergere alla luce. Quegli uomini

mostrano la loro fisicità ferita, i loro movimenti a scatti, difficoltosi, raccontano di una normalità perduta, di sere passate in discoteca in cerca di rimorchiare, della moto che a un certo punto ti tradisce, di quella processione di platani che ti taglia la strada, di una lenta ma caparbia riabilitazione. In tanta vita così mostrata e detta c’è a tratti un’estetica che commuove.

Commuovono quei tre uomini/burattini nel loro muoversi a fatica, commuovono quei corpi che tornano a muoversi, mossi da un burattinaio invisibile, fa venire un groppo alla gola lo stare lì di Palo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli con a lato seduto l’abbondante Pinocchio di Luca Scotton che li guarda, come se fossero quel burattino lasciato in disparte dopo che finalmente Pinocchio s’è fatto bambino… Sarà ma il non spettacolo di Babilonia Teatri è un incontro col dolore e la voglia di vivere, senza retorica ma vissuto con l’immediatezza di un dialogo naturale, è l’esito di un bisogno: creare relazioni e magari iniziare laddove la relazione con la vita s’era interrotta.

Dopo aver affrontato il tabù del “fine vita” nel precedente spettacolo, “The End”, l’idea di lavorare con le persone uscite dal coma dev’essere apparsa come una spontanea prosecuzione di percorso, per Babilonia Teatri. Per questo, come raccontano loro stessi, all’incontro con l’associazione Gli Amici di Luca non ha fatto seguito un progetto collaterale, ma una vera e propria nuova produzione. Difatti, per l’associazione che gestisce la Casa dei Risvegli di Bologna il teatro non è una semplice “attività collaterale”.

Alla domanda «perché fate teatro?», i membri dell’associazione hanno risposto: «è l’unico modo per rientrare nella società, che ci ha respinti e isolati».

Ma che c’entra questo con il “burattino senza fili”? In effetti Pinocchio, per i Babilonia, è una sorta di scatola vuota. Una serie di personaggi e ambientazioni talmente noti da poter essere evocati come simboli, senza la necessità di spiegarli. Della favola di Collodi ritroviamo nulla o quasi nello spettacolo di Enrico Castellani e Valeria Raimondi.

Pinocchio è più un terreno di incontro, una sorta di ambiente, un “teatrino” dove portare in scena l’incontro tra i Babilonia e Gli Amici di Luca. Ed è tutt’altro che una metafora, perché in scena troviamo davvero tre “burattini senza fili”, tre corpi parlanti che portano i segni della propria condizione di “risvegliati”, e che rispondono al nome di Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli. I tre raccontano la loro storia in un modo non lineare, interagendo con la voce dalla regia di Castellani che chiede, domanda, scherza assieme a loro. Il tono è colloquiale, senza fronzoli né inibizioni, ed è uno degli ingredienti essenziali, nella ricetta di Babilonia, per toccare un tema difficile senza restare invischiati nella sua “sacralità”. Che è poi spesso l’anticamera dei tabù.

Va detto in modo esplicito: non c’è niente di più lontano di questo spettacolo dal teatro sociale, da quel tipo di lavoro che trova il suo centro (spesso l’unico) nella denuncia di una condizione, di un rimosso. Non c’è pietismo, e questo non è solo un bene: è anche la precondizione che permette al “Pinocchio” di Babilonia di essere uno spettacolo che colpisce a fondo. Che, in effetti, sa parlare del rimosso sociale proprio perché non lo fa in modo scoperto e retorico. Preferisce farlo con i corpi e con le storie. Non c’è ricatto morale – che è il rischio implicito di operazioni simili, dove il contenuto si impone al di là della forma – e questo perché nel lavoro del gruppo veronese non c’è alcun tentativo di indottrinamento, di morale più o meno buonista. C’è la narrazione di un incontro, un dialogo tra la compagnia e un’idea scompaginata di spettacolo – un Pinocchio che non vedrà mai la sua forma teatralizzata, ma si accontenta di essere pretesto, evocazione.

Rispetto ai lavori precedenti, così espliciti e aggressivi, «punk» come li definiscono gli stessi Babilonia, qui sembrerebbe di assistere ad un cambio di paradigma. “Pinocchio” è uno spettacolo anti-spettacolare, apparentemente senza una tesi da portare. E invece non è meno brechtiano dei lavori precedenti: perché se quelli ricorrevano all’invettiva e alla messa in arte del testo, qui è la scelta inversa a dare forza all’operazione. Il Pinocchio di Babilonia non rappresenta la condizione di cui parla: in questo risiede il potenziale antiretorico del lavoro, in grado di dire senza restare invischiato nel politically correct, nella presa di posizione pavloviana che il “tema forte” impone tanto al pubblico che all’artista. Certo, non siamo di fronte a un’improvvisazione: non mancano tracce di spettacolarità – ne è un esempio la presenza buffa e inquietante di un mastodontico Luca Scotton, che si aggira per il palco a petto nudo, con un naso da pinocchio, e fa sprofondare la scena, a tratti, in una atmosfera onirica. Ma la scelta di non “parlare di” in favore di quella di “parlare attraverso” rende “Pinocchio” un luminoso tentativo di dare voce al rimosso, di parlare del non detto, di saper usare le parole laddove le parole sembrano essere state troppo usate.

Un esperimento e una sfida. È inevitabile pensare ai rischi ermeneutici mentre va in scena il Pinocchio destrutturato e ridotto a un groppo di emozioni dai Babilonia Teatri, passato al Teatro Duse di Asolo. Punto primo. Scegliere di costruire uno spettacolo con Gli Amici di Luca – associazione/compagnia di sopravvissuti al coma – espone al doppio rischio di farsi prendere la mano dai “casi” coinvolti sulla scena o di gestire con un (facile) scivolamento nel simpatetico il rapporto tra interpreti e spettatori.

Punto secondo. Se le parole in scena sono parole vere si rischia la mera testimonianza (patetismo), mentre se le parole sono finte e già scritte in un copione probabilmente si finisce in una inutile (teatralmente parlando) mistificazione.

Punto terzo. Chi deve stare sulla scena? Attori professionisti ad accompagnare i protagonisti? O solo questi ultimi con la speranza che non diventi un saggio dilettantistico?

Tralasciando altri possibili nodi critici, possiamo riconoscere che ancora una volta Enrico Castellani e Valeria Raimondi risolvono i pericoli della “vita che irrompe sulla scena” sciogliendo i punti di attrito in una crudezza poetica e disincantata.

Il pubblico si trova così a sorridere con (e non di) tre uomini con esiti di coma che si raccontano, in mutande, giocando su una diversità fatta di sensibilità e ironia mescolate ai postumi della malattia. E non c’è spazio per il buonismo vitalistico in chi è uscito dal tunnel, perché Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli e Luca Scotton restituiscono sulla scena simpatia e inquietudini, sofferenza e pazienza.

L’intervento drammaturgico di Castellani è solo verbale, dalla postazione luci, ma il suo accompagnamento è significativo per liberare quel grumo di dolori, entusiasmi, speranze, illusioni che quei Pinocchi ritornati alla vita dallo stato vegetativo nascondono dentro. In fin dei conti, al di là della scelta, scoprono di non voler rinunciare a nulla tra innocenza e consapevolezza. E consapevolmente – sulle note di Yesterday dei Beatles – rimpiangono il proprio personale, intimo, delicato Paese dei balocchi.

C’è una verità che arriva dritta al cuore in quei corpi esposti senza il pudore della loro imperfezione e della sofferenza raccontata con levità. E, in qualche modo, vinta. Anche se, i segni di essa, sono ben visibili. C’è un inizio scomodo, che genera disagio, nel loro ingresso lento dalla sala verso il palcoscenico. Il pietismo è in agguato.

Ma ben presto cede il posto ad una partecipazione profonda, umanissima, di spiazzante autenticità, con le storie dei tre protagonisti. Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli, portano sulla ribalta il loro vissuto di persone segnate dall’esperienza del coma.

Esistenze spezzate da incidenti improvvisi. C’è ironia, leggerezza, sincerità nel loro raccontarsi sollecitato da un intervistatore fuori campo che, sulla traccia di un copione abbozzato, pone domande, scherza, crea con loro. Strappa, con rispetto, confidenze intime, offre appigli per scavare e guidare nei ricordi. Eccoli ricostruirsi un’identità con l’aiuto del teatro, già praticato nella struttura bolognese “La casa dei risvegli” – ospitante persone in fase post-traumatica dopo un periodo di coma – da dove provengono. Tutto nasce da un progetto di Babilonia Teatri inizialmente su Pinocchio, evolutosi poi in altro, ma rimasto in sottotraccia.

Solo pochi oggetti scenici, brevi musiche, e l’emozionante esperienza culmina nel volo di Luigi dopo che i fili invisibili dei tre, del claudicare di burattini, si sono spezzati.

Usciti dal coma, con mente e corpo rinnovati: i non-attori sono così grilli parlanti che gridano Il loro sì all’esistenza ritrovata.

La causa e l’effetto. La sostanza e la forma. Il teatro e lo spettacolo. Nel suo percorso artistico, Babilonia Teatri ha fin da subito chiarito di guardare al primo più che al secondo: non tanto quindi allo spettacolo inteso come espressione compiuta di una spinta iniziale, quanto alla spinta stessa, alla “necessità”che fa muovere l’arte prima che diventi rappresentazione. Da “Panopticon Frankestein” in poi, il “Pinocchio” visto l’altra sera all’Astra di Vicenza in prima regionale per la rassegna “Fatti di vita”, firmata da La Piccionaia per il Comune, ha mostrato quanti passi avanti la formazione veronese abbia compiuto in questo senso. Sulla scena, volutamente scarna, priva di qualsiasi sovrastruttura, non c’è il racconto di una vita: c’è la vita stessa che si racconta. Ci sono Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli, anch’essi volutamente vestiti solo di un paio di boxer, che si mettono a nudo, davanti a se stessi e alla società per raccontare la loro esperienza di vita: quella che d’improvviso li ha portati dall’essere “regolari” – con una famiglia, un lavoro, un futuro dato per scontato – all’essere messi da parte, dopo che un incidente stradale li ha privati di tutto, li ha scaraventati nel coma e li ha ritirati fuori cambiandogli il corpo e la mente. Diversi fuori e diversi dentro. Potendo scegliere, ne avrebbero certamente fatto a meno. Ma già che il colpo è arrivato, le strade erano due: tacere e sopravvivere; oppure gridare “io esisto”e vivere una vita nuova. Il teatro per loro e per Gli amici di Luca – il gruppo di cui fanno parte e che in Babilonia Teatri ha trovato un partner artistico ideale- è il megafono attraverso il quale gridare al mondo la propria esistenza, il proprio essere come tutti “gli altri”, anche se per camminare fai più fatica, anche se non riesci a tenere la testa diritta e un gesto insignificante come schioccare le dita ti costa quanto scalare una montagna.

Ma c’è dell’altro, ci sono cose più importanti e profonde. C’è che la vita è appesa a un filo e quel filo può spezzarsi o ingarbugliarsi in qualsiasi momento e per chiunque, senza distinzioni.

Perché proprio Pinocchio, allora? Perché è una storia di scelte, di cadute e risalite, di errori e cambi di rotta, quelli che facciamo tutti. È questo che Babilonia prende e utilizza, facendo un passo indietro rispetto al classico di Collodi così come lo conosciamo: passando dal racconto a quel che viene prima, il nucleo, la radice.

Cadere nel pietismo, nella facile e inutile commiserazione sarebbe un attimo. Babilonia e Gli Amici di Luca sanno che quella buccia di banana è lì pronta a farli scivolare, ma la evitano con cura. Per questo lo spettacolo fa ancora una volta un passo indietro e lascia andare avanti il teatro. Gli attori restano fuori e fanno andare avanti i non-attori.

Enrico Castellani e Valeria Raimondi di Babilonia Teatri si sono limitati a segnare dei paletti. Castellani è solo una voce che, con brio e ironia, dà il “la” dalla regia al racconto diretto di Paolo, Luigi e Riccardo, soli sulla scena con l’unica eccezione di Luca Scotton, presenza silenziosa e funzionale in boxer e naso da Pinocchio. Così ridi: della tenera spavalderia di Riccardo, della classe naturale di Paolo – che sembra in giacca e cravatta anche se è in mutande – della simpatia e della dolcezza di Luigi. Sono loro a farti ridere con sincerità, anziché stuzzicarti ad arte a piangere. Non sono lacrime per il diverso che cercano, ma la normalità di una risata fatta insieme.

Dopo l’anteprima a Operaestate, “Pinocchio”conferma Babilonia come una delle voci più stimolanti del teatro italiano. Con questo appuntamento La Piccionaia ha aperto il cartellone del prossimo Pride Regionale Veneto, che culminerà a Vicenza il 15 giugno per valorizzare la diversità e combattere l’omologazione.

La compagnia Babilonia Teatri, già incline a condurre in scena fenomeni e manifesti autentici della società, sperimenta una soglia davvero inedita e affronta nel suo nuovo lavoro l’autobiografia vera e talora scomoda di tre persone reduci dal serio blackout di un coma. Superando così quanto fece Harold Pinter, che nel suo Una specie di Alaska del 1982 s’ispirò a “Risvegli” di Oliver Sacks e al caso di una donna che si desta da una malattia del sonno durata 30 anni (una catatonia riprodotta per essere “recitata”). Ma anche cercando di evitare la spettacolarizzazione dei freaks e facendo qualcosa di assai diverso dalle tante meritorie attività teatrali riservate ai “diversamente abili” che si

misurano con un repertorio classico o drammaturgico da “interpretare”.

La performance, che ha debuttato al teatro Storchi di Modena, s’intitola Pinocchio per saggiare davanti al pubblico, come fanno le pagine (qua e là richiamate) di Collodi, i conflitti tra realismo e imperfezione, tra isolamento e compiutezza, tra vita inerte e messa in gioco entusiasta di sé. E da questa idea-struttura di viaggio esplicito nell’identità costruito su tre voci, un’impresa realizzata da Valeria Raimondi ed Enrico Castellani che hanno incontrato, conosciuto e coinvolto l’Associazione “Gli Amici di Luca” di Bologna (dove si fa un teatro terapeutico per chi ha vissuto il coma), esce fuori un profondo test della verità, un exploit toccante, magari a tratti persino urticante, appena filtrato dal palcoscenico. Dove il copione è costituito da quanto rivelerà ogni sera, con fatali differenze caratteriali nel reagire alle domande formulate fuori campo da Castellani, un trio provocatorio, anomalo e disincantato di “pensionati per invalidità” piuttosto giovani, che non si risparmia un attimo.

La formazione è composta dal 49enne Paolo Facchini, ex manager di una multinazionale che 13 anni fa ha resistito a 35 giorni di coma dopo un incidente nella nebbia, dal 49enne Luigi Ferrarini che 30 anni fa ha trascorso 59 giorni di coma dopo essersi schiantato contro un platano, e dal 32enne Riccardo Sielli che 9 anni or sono ha fatto i conti anche lui con 59 giorni di coma a causa di un’auto che ha tagliato la strada alla sua moto.

Non c’è spazio per pietismi, per goffaggini. I tre sono plateali, confessano un’esistenza che ha avuto contrapposizioni “pinocchiesche”. Sanno che la “bella vita” che conducevano prima equivaleva agli zecchini d’oro e al Paese dei Balocchi, hanno tutti poi avuto la sensazione d’essere scarpe vecchie, sono consapevoli d’avere una pronuncia non perfetta e di rischiare di apparire i fantasmi di quello che erano. E infine si rendono conto d’aver bussato alle porte del cielo ricevendo un paradossale “alzati e cammina” col calvario di anni e anni di fisioterapia e riabilitazione. Ma queste tre solitudini (assistite in scena da Luca Scotton dei Babilonia, sorta di ingombrante Pinocchio disposto a fare un passo indietro), che ora si fondono in una voglia di vita esagerata alla Vasco Rossi e in un

cabaret tossico e rozzamente sensuale, scrivono sulla propria pelle (la troupe calza bermuda o un costume), consapevoli o no, un atto di teatro drammaticissimo e però anche esuberante, un prodotto dei nostri istinti più provati, del nostro amore più respinto, della nostra bellezza più repressa. È per questo, e non per paternalismo, che vanno applauditi, come attori senza remore.

“Pinocchio – Il paese dei balocchi” di Babilonia Teatri, secondo appuntamento con la stagione “Altri Percorsi – Arte della Diversità” curata da Teatro Stabile e Teatro alla Ribalta e andato in scena venerdì, è stato uno spettacolo particolare, “diverso”, forse non è nemmeno uno spettacolo in senso canonico. Questo perché gli interpreti non sono attori di mestiere, sono tre uomini (Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli) usciti dal coma a seguiti di gravi incidenti subiti e poi riabilitati presso la Casa dei Risvegli Luca De Nigris, centro innovativo e di ricerca fondato dall’Associazione Amici di Luca con la quale Babilonia Teatri ha realizzato un laboratorio, all’interno del quale è nato “Pinocchio”. Questi tre uomini recitano il testo della loro vita. Raccontano come sono e come erano prima, con assoluta umanità e semplicità, come se non fossero in ambiente teatrale.

Sono nati una seconda volta ma con i corpi segnati e diversi da prima, come ricorda loro “Yesterday” dei Beatles. Si muovono con difficoltà motoria, claudicanti, con gesti impacciati. Agiscono sul palco vuoto, privo di elementi scenografici; entrano in scena uno per volta, barcollando, in bermuda o boxer; fanno esercizi ginnici per il recupero di un corpo offeso. Quando parlano si allineano sotto luci semplici, osservati in silenzio da un Pinocchio obeso (Luca Scotton), seminudo, con il naso lungo posticcio, in pantaloncini, seduto in un angolo. Dialogano con un invisibile interlocutore, Enrico Castellani autore con Valeria Raimondi della regia, che conduce un’intervista, stralunata, ironica, scherzosamente affettuosa, ormeggiando lo stile di un improbabile talk-show televisivo.

Simile alla figura del burattinaio oppure vago grillo parlante, l’intervistatore pone loro domande relative al lavoro prima svolto, alle letture e i film preferiti, ma anche al ricordo di quel lungo periodo sospeso tra la vita e la morte. I tre rispondono senza filtri e censura, con pronuncia incerta, gesti complicati, soprattutto con battute sorprendenti e folgoranti, vitali, si scambiano battute, rendono complice il pubblico. Tutto si consuma in modo estremamente umano, senza effetti di banale pietà. Così il collodiano “Paese del balocchi” è il luogo mentale del non-ritorno, il quotidiano passato, la vita ordinaria, gli amici, il bar, la discoteca, il contatto con persone travestite metaforicamente da gatti, volpi, lucignoli, grilli parlanti. La storia letteraria di Pinocchio affiora e scompare, come un fiume carsico. Lo spettacolo colpisce, turba, emoziona, commuove ma in modo diverso dal solito: senza la mediazione del testo classico, la bravura dell’attore e le finzioni dell’arte scenica, il pubblico ha applaudito, con calore e sincerità.

Sempre assolutamente geniali gli autori/ registi di Babilonia Teatri, Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, capaci ogni volta e meravigliosamente di toccare tematiche, situazioni estreme con una sensibilità, un’intelligenza teatrale del tutto sorprendenti. Si ride spesso – risate aperte e piene, dirette e calorose – per questo Pinocchio presentato in anteprima al Teatro al Parco nell’ambito di Zona Franca/InContemporanea, protagonisti Enrico Castellani, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli e Luca Scotton, ma in questo divertimento libero, sciolto, immediato, si avverte nello stesso tempo uno strano miscuglio di stati d’animo, di vasta commozione, in un equilibrio di suprema cura e rigore teatrale in cui i Babilonia sono assoluti maestri. Una poetica che, nell’apparente semplicità, affronta le sfide più ardue con una misura prodigiosa, tra estrema delicatezza e massima audacia.

Pinocchio vive molteplici metamorfosi, soffrendo per questo. Divenendo anche povera creatura ragliante dalle orecchie d’asino. Morti e rinascite in altre forme. Potendo al termine vedere se stesso quand’era burattino, in un finale che non si sa quanto possa dirsi lieto, felice, rinunciando Pinocchio a molta parte di sé per diventare “ragazzino perbene”.

Anche chi si risveglia dal coma si trova cambiato profondamente. Lunghi i tempi della riabilitazione. Difficile riavvicinarsi alla vita di un tempo. Nel cuore dello spettacolo i tre interpreti saliti in scena a torso nudo, svelando alcuni segni di quel passaggio sospeso tra la vita e la morte (così dirà uno di loro), faranno scorrere dei cartelli, mentre si ascolta la canzone, con la traduzione di Yesterday, “…improvvisamente non sono l’uomo che ero”.

Esperienze reali. Questo spettacolo è nato con . Pure grandissimo teatro divenendo ogni passaggio, anche d’assoluta verità, carico di molteplici sensi, dubbi, metafore, in una densità di pensieri che lasciano comunque intatta l’emozione, profondo il turbamento.

Enrico Castellani è voce esterna che legge brevi frammenti di Pinocchio, interroga i tre uomini, chiede la loro età, cosa ricordino del loro tempo precedente. Continuo il gioco tra verità e finzione. “Si attenga al copione Ferrarini!”. Pinocchio e i suoi personaggi. Il sogno di una fata. Ricordi, racconti surreali. La guida esterna chiede, ordina, corregge. Perché c’è anche, grande, divertita, ilare, la voglia d’autonomia. Lunghissimi, colmi di commozione e incanto, gli applausi al termine. Ancora un’opera straordinaria con Babilonia Teatri.

BOLOGNA – In punta di piedi, nel passato, sulle note di Yesterday. Il Pinocchio del duo Castellani – Raimondi di Babilonia Teatri è uno spettacolo che ha un pregio indiscutibile: riesce, con un sorriso e con una buona dose di autoironia, a forzare progressivamente l’attenzione del pubblico su una dimensione narrativa, drammaturgica – teatrale insomma -, agendo sull’immagine focale dei corpi di tre attori segnati dalla tragica esperienza del coma. E apre così a una prospettiva di racconto più ampia e più universale rispetto alle singolarità sulla scena.

Corpi esposti, mostrati senza nessun falso pudore, a stabilire il dato di fatto, la partenza della storia che si sta raccontando, la verità: da questo oggettivo si costruisce un percorso in bilico tra realtà e finzione, in equilibrio sottile tra ciò che è accaduto e ciò che accade. Le storie che sentiamo narrare sono quelle – vere – dei protagonisti, il loro incidente, il risveglio dal coma. I tre rispondono a una voce off – dello stesso Castellani – che li intervista come in uno spot, come in un talk show. Ma quella che parla ai tre attori è una voce che gioca dalla loro parte, che ne guida l’ l’interpretazione in un delicato impianto metateatrale, senza mai forzare la narrazione, bensì assecondandone le vicende.

Il regista costruisce una cornice leggendo passi dal testo di Collodi e suggerisce così parallelismi tra Pinocchio e le situazione incontrate nella vita vera degli interpreti: e poco importa se il riferimento letterario appare di primo acchito poco più di un pre-testo. A dare verità alla fata turchina, al paese dei balocchi, al ventre della balena c’è la straordinaria umanità di Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli.

Uno alla volta, al microfono o seduti su una sedia, raccontano, trasfigurandolo, il loro incidente e il loro lento ma determinato, inesorabile, ritorno alla vita. Niente sarà mai come prima e, mostrando il testo scritto su cartelli della Yesterday dei Beatles, i tre realizzano la consapevolezza dolceamara delle contraddizioni dell’esistenza. Un’umanità che si mostra: nella sua autenticità, nella sua volontà di riappropriarsi di se stessa, nel grido del proprio nome e cognome di Paolo Facchini, ripetuto fino a farne perdere il senso nell’iterazione urlata. Cosa resta di questo Pinocchio, visto alla vigilia della tournée nella significativa cornice della “Casa dei Risvegli” di Bologna? Una profonda suggestione tragica, risolta con la levità di un sorriso sincero.

Non è un caso che due delle proposte più importanti del festival “B.motion” di Bassano fossero realizzate con persone disabili o affette da disturbi psichici. C’è, in questi incroci del teatro con la diversità e la malattia – se sono sostenuti da una forte vena creativa – il senso di una necessità che trascende e soverchia ogni altra forma di spettacolo presentato nello stesso contesto, dal raffinato studio su Mishima di Alessandro Martinello al monologo con pupazzi della bravissima Marta Cuscunà sulle suore ribelli di un convento cinquecentesco. Pur essendo ancora in fase di preparazione – la prima “ufficiale” avverrà il 7 ottobre a Bologna – il Pinocchio allestito da babilonia Teatri con pazienti usciti dal coma è parso già un risultato assoluto, forse il punto d’arrivo (col già recensito Lingua Imperii degli Anagoor, che ha aperto la rassegna) di una generazione: punto d’arrivo non solo per l’alto livello poetico, ma per la padronanza, per la sensibilità con cui Enrico Castellani e Valeria Raimondi hanno governato una materia difficilissima, che sarebbe sfuggita di mano a chiunque altro.

Il loro Pinocchio è straordinario fin dalla scelta del titolo, che implica allusivamente il tema del risveglio, del passaggio dalla condizione di burattino a quella di bambino, e dunque della presa di coscienza di un prima e di un dopo. È straordinario nell’apparizione dei tre protagonisti, che entrano dalla sala, seminudi, due in bermuda e uno in mutande, incerti nei passi, ma non smarriti. È straordinario nell’idea di non farli recitare ma parlare di sé, sollecitati dalla voce fuori campo dello stesso Castellani, che li interroga, li coinvolge in una paradossale intervista, all’apparenza un grado zero della rappresentazione, di fatto invece teatralissima. Lui, invisibile, pone domande con affettuosa ma sfrontata ironia, senza retorica o pietismo: chiede della loro vita, dell’incidente che l’ha segnata, delle fate turchine che vorrebbero incontrare. Loro rispondono con humor irresistibile, quasi con spavalderia: il tutto sembra lieve, sorridente, ma il dramma si nasconde di continuo dietro

la dizione faticosa, dietro i gesti esitanti, coesiste con la scheggia di immediata realtà che essi incarnano, la illumina e in qualche modo nobilita.

B.MOTION/1. La compagnia si conferma tra le più lucide ed efficaci. La rielaborazione dell’opera di Collodi offre riflessioni e inediti punti di vista: applausi.

Bassano. Doveva essere la notte di Babilonia Teatri, compagnia tra le più lucide ed efficaci della scena contemporanea. La notte dell’attesa anteprima di “Pinocchio”, nuovo lavoro della formazione veneta guidata da Enrico Castellani e Valeria Raimondi, presenza fissa al festival B.Motion di scena in questi giorni a Bassano. Doveva esserlo e lo è stata.

In pieno, ottenendo al Teatro Remondini, in un breve assaggio, esattamente ciò che anche questo lavoro, come tutti quelli firmati dal gruppo, si propone: mostrare la realtà sotto una luce bianca e forte, che non addolcisca gli spigoli, non veli le imperfezioni; mostrarla e far sì che qualcosa scatti, perché è l’indifferenza, l’anestetizzarsi progressivo delle coscienze, il male mortale della nostra società. “Pinocchio” è un pugno allo stomaco, l’ennesimo con il quale la compagnia colpisce chi guarda. Tutto è nato dall’incontro con Gli amici di Luca, compagnia attiva in seno all’omonima associazione di volontariato che a Bologna si occupa di persone uscite dal coma. Insieme, le due realtà hanno elaborato l’opera di Collodi, facendone il medium ideale per una serie di riflessioni sulla vita, sulla sua fragilità e la sua forza, sul nostro volere o non voler essere, sulle scelte che facciamo o non facciamo. Nell’anteprima al Remondini, il palcoscenico è quasi vuoto, uno spazio nero sul quale arrivano tre uomini in bermuda e a torso nudo, mentre un quarto, con il celebre lungo naso di cartone trattenuto da un elastico, attende seduto sul fondo. Con una voce che viene dalla regia, i tre iniziano una sorta di talkshow: si presentano e scherzano con “la voce”: si parla del loro risveglio dal coma profondo, dal vuoto che tiene la vita in sospensione senza che nulla accada dentro di te mentre intorno le cose continuano ad essere, a divenire. Il tema è grave, ma i toni sono leggeri e tu, spettatore, non sai se puoi permetterti di ridere o no; alla fine lo fai, ti lasci andare alla contagiosa simpatia dei tre e al tono della conversazione, nella quale con sempre maggiore decisione entrano figure e riferimenti a “Pinocchio”. Ma proprio quando pensi che tutto sia chiaro, il pugno arriva: come un platano o un muretto contro i quali ti schianti, o come un idiota che ti taglia la strada. Dopo il buio e il vuoto, se sei fortunato, devi ricostruirti, come un bimbo appena nato, con quello che ti è rimasto. Così è per tutti, si tratta di scegliere: e “Pinocchio” è il simbolo per antonomasia della scelta tra il bene e il male, il piacere e il dovere, fra Mangiafuochi, Fate Turchine e Lucignoli. Ma la prospettiva è cambiata e ciò che davi per scontato non lo è più. Il paese dei balocchi è un ricordo lontano, temuto e desiderato insieme. Con questa prospettiva anche una canzone “assodata” come Yesterday dei Beatles assume contorni nuovi. I tre “risvegliati” mostrano cartelli con su scritta la traduzione di quelle strofe: “Ieri, tutti i miei problemi sembravano allontanarsi / Adesso sembra che stiano di casa qui / Io credo in ieri / Improvvisamente, non sono l’uomo che ero / C’è un’ombra che sta sopra di me”. Diverso nei modi ma coerente nella sostanza alla poetica dei Babilonia, il lavoro debutterà il 7 ottobre a Bologna, nella Giornata nazionale dei risvegli per la ricerca sul coma. Intanto, lunghi, convinti applausi al Remondini.

Napoli – Quello di Babilonia Teatri è un lavoro scenico che affonda le unghie nella carne viva della realtà, anzi della vita stessa. E che a volte preferisce fare a meno (in apparenza) di tecniche, di artifici, di finzioni, per mettere in scena senza fronzoli e senza tanti complimenti l’Esperienza cruda ed estrema. Una linea poetica che trova piena conferma nell’allestimento di questo spettacolo intitolato Pinocchio, che Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, “anima e corpo”, appunto, di Babilonia Teatri, hanno presentato, nei giorni scorsi, alla Sala Assoli di Napoli. Ciò che indaga questo percorso scenico (ci risulta faticoso continuare a definirlo in maniera molto approssimativa “spettacolo”), sono gli effetti che un’esperienza tanto radicale e, per certi versi, definitiva, come quella del coma, lascia su chi l’ha provata. La felice intuizione dei due autori è stata quella di cogliere la grande potenzialità evocativa, e perché no, anche simbolica, che in tale esperienza si nasconde.

Persone del tutto comuni che, per uno snodo traditore della loro altrettanto comune quotidianità, si trovano trasformati all’improvviso in “viaggiatori dell’esistenza”. Emissari proiettati in una terra sconosciuta, sospesi tra la vita e la morte, impegnati in un viaggio dal quale niente e nessuno può assicurare il ritorno, se non quella piccola scintilla in lontananza che, improvvisamente, a volte, si riaccende.

Sulla scena, dunque, non tre personaggi, ma tre uomini veri, tre persone che quell’esperienza l’hanno vissuta sulla propria pelle, e della quale portano i segni, probabilmente indelebili. Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli, si presentano così, per quello che sono, assolutamente comuni e assolutamente eccezionali. Senza nascondere e senza coprire nulla della loro attuale realtà, esposti allo sguardo dello spettatore indossando simbolicamente dei semplici pantaloncini. Sollecitati dalle domande e dalle provocazioni che li incalzano attraverso la voce fuori campo di Enrico Castellani. E alle quali oppongono la loro disarmante (e forse originaria) naturalezza. Fatta anche di residui handicap motori o del linguaggio.

Con loro, in scena, Luca Scotton, col suo naso finto da Pinocchio, è una sorta di specchio che dà senso al titolo della messa in scena. Sempre silenzioso, compie delle azioni di supporto in cui diventa come una specie di riflesso dell’umanità intera, e di fronte a quella verità, tanto radicale quanto ineluttabile, lascia che il suo naso cresca, trasformando le bugie in illusioni.

Pinocchio siamo noi al cospetto di questi tre, forse inconsapevoli, emissari dell’infinito. Anche se ciò che più sembra interessare Raimondi e Castellani, non è, come ad esempio in Risvegli di Oliver Sacks, l’esperienza di “premorte”, quanto piuttosto, quella di “postvita”. La prima, infatti, per quanto affascinante, vaga nel territorio inafferrabile e nebuloso della percezione soggettiva e, in definitiva, dell’ipotesi indimostrabile. La seconda, invece, non meno transitoria, ma legata fortemente al “qui e adesso”, riveste una forza di impatto illuminante e tangibile che ci rende consapevoli di noi stessi e va a toccare direttamente il nostro modo di considerare l’esistenza e la “realtà”. Eppure, quella che ci si porta dietro, alla fine, fuori da questo “teatro” che al massimo grado sembra svolgere, qui, la sua funzione, è la sensazione di essersi posti di fronte ad uno specchio nel quale, più che doloroso, ci è parso consolatorio ritrovarci.

Pinocchio di Babilonia Teatri è uno spettacolo e come tale va recensito. Occorre scrivere immediatamente questa ovvietà perché – questa ovvietà – potrebbe sfumare e non essere tenuta in giusta ragione. La scelta, infatti, di portare sul palco tre attori che sono anche tre uomini realmente usciti da un coma rischia di rendere la recensione un racconto ed il racconto un empatico elogio di tre uomini usciti dal coma, facendo dimenticare che sono o vanno considerati tre attori.

Funziona? Esiste una struttura drammaturgica di base? Quali sono le scelte scenico-visive? Che rapporto c’è tra la regia e gli interpreti? Che significato (metaforico, allusivo, effettivo) hanno gli oggetti? Cosa esprime davvero Pinocchio e in che modo? Sono queste alcune delle domande che passano in testa a chi scrive. A queste cercheremo di rispondere.

Il tentativo di Babilonia Teatri è di mettere in scena una condizione, o meglio: una pluralità di condizioni che hanno come loro epicentro l’attimo in cui un individuo entra in coma (“La sospensione”; “L’assenza di motore”; “Una stanza buia e, nella stanza buia, una piccolissima luce da raggiungere” secondo i tre interpreti). Stabilito l’evento, fermato il momento, colto l’istante in cui tutto ciò accade, si desidera osservarlo, comprenderlo, teatralizzarlo e condividerlo, cercando di rendere in palco anche il prima e il dopo.

Il prima ovvero tutto quel tempo in cui le gambe andavano, in cui la schiena stava diritta, le braccia rispondevano alle sollecitazioni, le mani realizzavano un desiderio; quel tempo in cui si poteva ballare, correre in moto, guardare le donne, in cui si poteva rimandare la lettura di un libro convinti che lo si sarebbe letto il giorno seguente.

Il dopo ovvero questo tempo presente in cui le gambe non vanno ma devono andare di nuovo, in cui la schiena non sta diritta ma può tenere ancora in piedi, in cui le braccia fanno fatica ma si muovono e le mani tornano ad afferrare le cose; questo tempo in cui se non si balla benissimo si può comunque tentare di ballare, si può tornare a guardare le donne, sperare di tornare in sella a una moto, riprendere la lettura interrotta.

Prima, dopo e quell’attimo.

Per farlo Babilonia Teatri individua nel Pinocchio di Collodi la trama che può servire da appoggio e da sostegno allo spettacolo; rinuncia (apparentemente) ad ogni possibile finzione scenica; stabilisce un rapporto verbale, funzionale e immediato tra chi recita e chi dirige e coordina dalla regia.

Trama, scena, regia, dunque, nella nostra analisi.

La trama.

Per raccontare ciò che vuole raccontare vengono individuati sei frammenti o sei temi del Pinocchio: la nascita del burattino, la scuola, la Fata Turchina, il Paese dei Balocchi, la trasformazione in asino, il ritorno alla dimensione di burattino prima e la trasformazione in bambino poi. Questi sei momenti vengono tradotti in altrettanti episodi teatrali: imperfetti, discontinui, apparentemente improvvisati ma in realtà non improvvisati del tutto. Ecco, dunque, la nascita tramutata in una presentazione-intervista; la scuola resa attraverso il rapporto con la lettura e coi libri; la Fata Turchina intesa come vagheggiamento sentimentale e sessuale del femminile; il Paese dei Balocchi tradotto in discoteca; la trasformazione in asino attraverso un raglio e il conseguente senso di vergogna (detto con cartelli usati in sequenza) mentre il ritorno alla vita – come burattino e bambino – diventa l’immagine pre-finale (un volo per fune e per gancio) che allude, di certo, anche al Teatro come mezzo di rinascita (l’uso palese dell’attrezzeria, la perdita di peso, la levità) ma che ci è parsa soprattutto il vero tarlo dello spettacolo, un’aggiunta retorica, un di più evitabile.

In definitiva − valutando la trama − potremmo scrivere di traduzione o di adattamento di lembi, lacerti, vaghi echi dell’opera di Collodi; potremmo scrivere soprattutto di un necessario utilizzo di brevi passaggi libreschi perché le vicende individuali abbiano una struttura narrativa continua, stabile, adatta a condurre (gli spettatori e gli interpreti stessi) da una partenza a una meta.

La scena.

Rinuncia – apparente – ad ogni artificio, ad ogni mascherata possibile, ad ogni truccatura o finzione. Babilonia Teatri sembra voler sottolineare che ciò che si offre è reale, che non è un’invenzione, che chi ascoltiamo o vediamo porta in dote se stesso e la propria esperienza. Per questo fa porre i tre protagonisti in posizione frontale, imponendoli al pubblico con un pieno-luce; per questo non si premura di nascondere certi trucchi da palco (pensiamo al pezzetto di scotch); per questo utilizza le parole del Pinocchio come sonoro fuori-scena.

Tuttavia pensare ad un’assenza formale o ad una riduzione della componente estetica sarebbe un errore. I camerini a vista, con gli specchi ed i neon e gli attori posti in attesa del pubblico; la denotazione dell’ingresso degli interpreti; l’ostentazione dei microfoni; l’elenco dei personaggi e dei ruoli; la presenza di una quarta figura che funge da Pinocchio-icona ma anche da servo di scena; i giocattoli posti in assito; l’utilizzo di cartelli, musiche, brevi composizioni coreografiche; l’attenzione all’eccesso o alla scarsità di luce (con l’impiego variabile da cinque a quattordici fari); l’uso metaforico di una sedia; la recita prodotta all’interno della recita (il viaggio dei tre, i campi, la moto, il trattore e la vecchia, il contadino, il viandante); la danza-specchio; la lettura di poesie già scritte e che vengono rilette ad ogni replica; la reiterazione prevista di Patience dei Guns N’ Roses e certi cambi di ruolo, certe interrelazioni, certe movenze individuali o collettive ci dicono quanto Pinocchio sia anche una costruzione, una partitura fissa, un meccanismo.

Pensare quest’opera solo come una confessione d’immediatezza attraente, pensarla solo come un insieme di vite vissute ed offerte, pensarla solo come un avvicinamento solidale e partecipe risulterebbe un errore perché vorrebbe dire non comprendere quanta ri-definizione teatrale (non sempre riuscita: si avvertono rallentamenti, qualche vuoto e un paio di trovate non originali) viene invece prodotta, realizzata e consumata.

La regia.

Colpisce particolarmente il costante dialogo tra regista ed interpreti. In basso (anche per la particolare connotazione di Sala Assoli) stanno i quattro (scriviamo: tre-più-uno); in alto sta colui che chiede, pretende, sposta, compone e scompone, domanda, ferma e fa ripartire, unisce e separa, indirizza e ordina, regola, sistema, organizza, classifica, allestisce inducendo al gesto e all’immobilità, alla parola e al silenzio. Nel mezzo ci siamo noi spettatori, che commettiamo l’errore di avere gli occhi fissi soltanto verso il palco mentre andrebbe meglio inteso (e osservato) questo rapporto che si stabilisce tra chi sta sopra e chi sta sotto, tra chi dirige e chi viene diretto.

Due le suggestioni, più una terza in aggiunta.

La prima, la più facile: il regista è il Teatro, i tre (Paolo, Luigi, Riccardo) sono uomini che incontrano il Teatro, che al Teatro si offrono o sono offerti, che dal Teatro ricavano sollievo e leggerezza dopo il peso, il dolore, la stasi. In tal senso Pinocchio diventa quasi una messa-in-forma-di-spettacolo della fase laboratoriale che lo ha preceduto.

La seconda, intima e tutta personale, porta a vedere una storia oltre la storia (o meglio: un Pinocchio oltre il Pinocchio del palco) poiché c’è questa voce che tuona dall’alto, che dall’alto si impone e che rende – di fatto – il regista simile a un puparo che gioca coi suoi pupi, ad un autore che fa parlare i suoi personaggi. Ad un tempo, quindi, egli è il crudele Mangiafuoco della fiaba ma anche il dolce Collodi della favola stessa. Da questo deriva – in chi scrive – uno spaesamento, qualche dubbio e una sensazione d’abuso, d’eccesso, d’abile utilizzazione strumentale: talora generosa, talaltra cattiva.

Non basta: la terza suggestione in aggiunta.

L’idea di chi scrive, a questo punto, è che a raccontare la vicenda del burattino non sia davvero quel che avviene giù al palco bensì proprio questo rapporto così diretto, soldatesco, disequilibrato e immediato, che si stabilisce tra chi muove e chi viene mosso. Se così fosse saremmo in presenza di una voluta verticalità realizzativa, in grado di generare uno spettacolo il cui spazio reale s’allarga fino a comprendere gli spalti, le scale laterali, la cabina regia e quel terzo microfono che – colui che stabilisce e comanda – tiene stretto nel pugno. Interna e non esterna allo spettacolo, la sua voce diventa il filo che muove i pupazzi ed il fiato che dona presenza.

Frasi o incisi come “Taccia”; “Per cortesia, si attenga al copione”; “Non faccia lo spot al suo libro” e “Non è uno spettacolo di cabaret”; “Dobbiamo solo avere pazienza”; “Ritornano le luci e i tre, come per magia, sono di nuovo qui” sembrano una conferma e ci dicono che i veri interpreti di questo Pinocchio non sono solo i tre-più-uno di scena ma sono cinque e che, al quinto (Enrico Castellani), tocca il ruolo di padrone ma di un padrone che – allora – rappresenta la Vita stessa, il Caso o il Destino: come la Vita, il Caso o il Destino, egli mette al mondo, indirizza, permette la crescita e l’affermazione di sé; come la Vita, il Caso o il Destino egli impone all’improvviso un dolore, obbliga a lottare con questo dolore, con questo dolore costringe a convivere fino all’ultimo giorno.

“Gigi, ti cade la testa”, “Ti cade il busto”.

“Riccardo ti cade la testa”, Ti cadono le braccia”, Ti cade il busto”.

“Paolo, la testa”. “Le braccia”. “Il busto”.

Poi la voce (la Vita, il Caso o il Destino) – rimessi a sedere i suoi burattini, vuoti fantocci ora senza una guida – emette gli ultimi ordini: “La musica sfuma”; “Buio”.

Viene il silenzio. Giunge la fine.

La fine è la morte

ANDREA COVA, LOLITA A SHORT THEATRE 2013, WWW.SALTINARIA.IT, 16/9/2013

La compagnia veronese Babilonia Teatri irrompe all’ottava edizione di Short Theatre presentando i suoi ultimi due progetti drammaturgici, “Pinocchio” e “Lolita”. Reduci da una sequenza ininterrotta di successi, salutati dal plauso caloroso e unanime di pubblico e critica – per citare gli episodi più significativi di questo cammino di ricerca, potremmo rammentare “Made in Italy”, “Pop Star”, “Pornobboy” e “The end” – Enrico Castellani e Valeria Raimondi coniugano in questi lavori dall’icastico impatto emotivo la cifra stilistica distintiva delle loro precedenti esperienze con approcci inediti di indagine estetica e teatrale, nel minimo comun denominatore di uno sguardo corrosivo capace di aggredire inquietanti zone d’ombra del reale senza neppure sfiorare il rischio di precipitare nella retorica o nel patetismo.

La reazione alle deflagranti schegge di acutissima riflessione e interpretazione delle dinamiche esistenziali che contraddistinguono il contemporaneo scagliate da Babilonia Teatri non concede una posizione interlocutoria allo spettatore: può suscitare moti di ripulsa o disagio per l’autenticità brutalmente sincera che viene scaraventata senza filtri alla sua percezione sensoriale; oppure può innescare un’adesione totalizzante e sconvolgente, germinale spunto di un intimo ragionamento che inevitabilmente lo accompagnerà a lungo dopo la tutt’altro che rassicurante chiusura del sipario.

Gli strumenti espressivi adottati divengono armi affilate per veicolare questa poetica asciutta e incisiva: un torrenziale flusso di parole scarnificate, restituite alla loro essenza senza il filtro opalescente dell’interpretazione attoriale; minimalismo del corredo scenografico, costituito da pochi oggetti di uso quotidiano che finiscono per essere ammantati da un’evidente valenza simbolica, arricchiti eventualmente da un sapiente ricorso a videoproiezioni; inserti musicali di matrice prettamente commerciale e consumistica che, a seconda della circostanze, si fanno presenza invadente e disturbante o sgargiante pennellata tale da tratteggiare istantaneamente la psicologia del personaggio in scena; il costante ribaltamento delle canoniche prospettive tra performer e fruitore dell’atto teatrale, con l’intento di scardinare troppo rassicuranti e pacifiche soluzioni. Componenti stilistiche del linguaggio drammaturgico di Babilonia Teatri che ritroviamo parzialmente in questi due ultimi lavori, ma che al contempo scoprono il fianco a sentieri non ancora battuti, mantenendo perfettamente a fuoco l’obiettivo sull’impegno sociale e civile, urgenza imprescindibile che ha da sempre animato gli sforzi artistici della compagnia veneta.

In “Pinocchio” le immortali vicende del burattino collodiano ed in particolare la trasformazione da ciocco di legno inanimato ad effervescente bambino in carne ed ossa assurgono a metafora di un ben più lacerante passaggio tra diversi stadi dell’esistenza, quello attraversato da uomini comuni che sono sprofondati nell’obnubilante silenzio del coma, aggrappandosi pervicacemente alla vita sono riusciti ad attraversare questo tunnel sino al risveglio, per poi intraprendere un altro e forse più faticoso viaggio, quello verso la riabilitazione e la re-integrazione sociale. Ecco dunque che sul palcoscenico si presentano a noi, senza maschere, difese o infingimenti, i tre protagonisti indiscussi della performance – Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli -, appartenenti alla onlus di volontariato “Gli amici di Luca”, associazione composta da ragazzi con esiti di coma che si prefigge di sensibilizzare la comunità alle innumerevoli difficoltà incontrate nel tentativo di tornare a condurre una vita socialmente, lavorativamente ed affettivamente completa.

Il progetto di Babilonia Teatri scaturisce proprio dall’incontro con questa dimensione e dal sentiero laboratoriale con questa condiviso e, privo di un’architettura troppo rigidamente codificata, si sostanzia di una cospicua componente di improvvisazione: la voce fuori campo di Enrico Castellani conduce un’ironica e a tratti straniante intervista ai tre, mantenendosi costantemente in bilico sul sottile crinale che separa l’ umorismo paradossale dalla drammatica rievocazione delle dolorose esperienze passate. Con estremo rispetto e giocosa capacità empatica viene costruito sin dalle prime battute un singolare legame tra il moderatore, i tre intervistati tanto spassosi quanto determinati nel riappropriarsi del presente dopo essersi liberati del soffocante giogo del coma, e gli spettatori, immediatamente coinvolti da questa inconsueta dinamica performativa ed inevitabilmente indotti a confrontare l’angoscioso percorso esistenziale dei tre uomini con le piccole, talora insignificanti, afflizioni che costellano la quotidianità. Il coma viene descritto dai tre “risvegliati” come un perpetuo senso di immobilità, lo stare fermi sospesi tra la vita e la morte, un computer azzerato ridotto a mero involucro, un buio opprimente in fondo al quale si percepisce solo un lievissimo chiarore, una zucca di Halloween inesorabilmente vuota. Ci si interroga su come abbiano affrontato gli istanti immediatamente successivi al ritorno allo stato cosciente, su quale sarebbe la loro Fata Turchina ideale – Facchini ne ha conosciuta una sul web costruendo con lei una “relazione di affinità elettive”, mentre più prosaicamente Ferrarini la vorrebbe “maiala” e rigorosamente bionda naturale e Sielli opterebbe invece per “una moretta soda e sportiva” -, si ripercorrono le canzoni che più distintamente evocano in loro ricordi e suggestioni, fino ad arrivare alla determinazione condivisa che il Paese dei Balocchi risiede dentro di noi ed è nostro preciso obbligo etico quello di cercare di riportarlo a galla, nonostante le asperità che l’esistenza può dispiegare sul nostro cammino.

La conclusione è accompagnata dalle struggenti note di “Yesterday”, brano il cui testo viene rivissuto attraverso dei cartelli mostrati dai protagonisti, e da tre parentesi di riflessione attraverso cui tentano di definire la propria attuale collocazione nel mondo (“Delle volte mi sembra di essere un fantasma, il fantasma di ciò che ero…un fantasma fa paura, un fantasma non si vede…sono in cerca di un acchiappafantasmi!” sostiene sarcasticamente Ferrarini). Una drammaturgia onesta, lontana dalla retorica ed emozionante quella con cui Babilonia Teatri affronta un fenomeno troppo spesso dimenticato, un universo umano negletto e colpevolmente dimenticato dalla società, su cui il teatro può contribuire a riaccendere doverosamente i riflettori.

“Non sono fatto di legno ma di carne e ossa” e anima aggiungerei. Troppe volte viviamo una vita per inerzia, “andiamo avanti” e non ci rendiamo conto del regalo che abbiamo tra le mani, nelle mani e aver qualcuno che ce lo urla nelle orecchie non può che giovarci, soprattutto se questo qualcuno è una persona che ha passato l’esperienza del coma.

Passiamo la vita aspettando di viverla e non ci accorgiamo che nel mentre è giá finita, rovinata o semplicemente diversa.

Pinocchio ci racconta proprio questo: le storie di tre ragazzi sopravvissuti all’esperienza del coma che si collegano come i fili di quello stesso burattino alla tanto amata storia di Collodi mostrandocela sotto una luce diversa. Credo che ognuno durante lo spettacolo e nel viaggio verso casa trarrá la sue personali conclusioni sulla base delle proprie esperienze personali e, se posso raccontarvi la mia, non é stato un boccone propriamente facile da mandar giù. Di fronte alla forza di volontá di questi tre uomini, al loro entusiasmo per la vita, nonostante quello che questa ha avuto in serbo per loro, mi sono sentita così piccola e stupida nei miei stupidi problemi dove tutto quello di cui posso lamentarmi é di un ragazzo che non mi richiama. Stupida stupida stupida: nemmeno si può dire che era la mia tanto agognata ricerca della fata turchina, nemmeno del principe azzurro ha poi così tanto, diciamo che del color del cielo c’é ben poco.

Pinocchio fa bene e fa male: Pinocchio ti racconta con ironia delle aspettative sexy nei confronti della fata, così come ti colpisce con il pugno di ferro del momento dell’accasciarsi dei corpi dei burattini stremati. È un costante susseguirsi di stati d’animo, che si bilanciano e contro bilanciano: un equilibrio precario e instabile, lo stesso che accompagna il susseguirsi dei nostri giorni ma a cui troppe volte non diamo retta troppo impegnati a correre al ritmo sovrumano dei nostri impegni.

Dopo quest’inizio pragmatico e denso di tutte le emozioni che a 24 ore di distanza mi porto ancora addosso, vi racconto per bene che cos’é Pinocchio: si tratta di uno spettacolo realizzato da Gli Amici di Luca, compagnia teatrale costituita da persone che hanno vissuto sulla propria pelle l’esperienza del coma e che la raccontano parafrasando il Pinocchio che noi tutti conosciamo fin giá dall’infanzia. Il teatro é un mezzo per rimettere i piedi in quella societá che dopo il coma ha tagliato questi tre uomini un pò fuori facendo sentire la loro voce, amplificandola addirittura da un palco. Così le storie di Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli diventano famigliari per chi in quell’ora e mezza riesce ad avvicinarcisi, appassionarsi, impersonificarcisi e perfino commuoversi. Il racconto si muove attraverso le domande che Enrico Castellanifa ai tre e tante volte diventa davvero difficile capire dove ci sia un copione e dove no. In fondo in fondo potrebbe esser un’ulteriore metafora: non è forse vero che un po’ ognuno di noi stende e si lascia stendere una sceneggiatura della propria vita e che via via andrá a seguirla in maniera più o meno fedele? Progetti, aspettative, sogni e poi un giorno può succedere il buio, il successivo strisciare in una stanza piena di ostacoli alla ricerca di quell’unico puntino di luce. Può succedere e può farlo proprio a noi. Se ora dovessimo fermarci un attimo e pensare a se succedesse proprio oggi mentre rientriamo dal lavoro, dalla scuola di nuoto dove abbiamo lasciato i bimbi o semplicemente scivolando nella doccia, che cosa ci pentiremmo di non aver fatto?

Pinocchio é un progetto di Babilonia Teatri e il testo é proprio volto a far riflettere sulla vita, sulla sua fragilitá e la sua forza, così come sulle scelte fatte e quelle mancate. Quante volte ci si ripete che la vita é una sola e che bisognerebbe viverla al massimo? Temo più di quanto ci si ricordi di farlo per davvero e questo spettacolo é un vero e proprio schiaffo in pieno viso a chi butta via il suo tempo dietro a preoccupazioni e valori inutili invece di riempire i polmoni con quanta aria possibile, ridere tanto forte da irritare i vicini e cantare, quanto fa bene cantare.

Una tra le materie più ambite della revisione scenica è senz’altro il nodo cruciale dei classici, l’archetipo che di un personaggio si può costruire secondo i riflessi reali o di genere. L’eroismo fragile di Achille e Patroclo, l’erranza di Ulisse, la pena amorosa di Anna Karenina o le peregrinazioni di Dante verso l’assoluto. Tutte le chiacchiere e previsioni critiche intorno al romanzo di Carlo Collodi si sono moltiplicate nelle simbologie più o meno sinistre tra un burattino cui viene concesso di acciuffare la vita in cambio della propria innocenza prima tradita con bugie e antagonisti accattivanti, poi riscattata. La saggezza del grillo e il lucore della Fata Turchina non bastano a fermare Pinocchio dalla rincorsa del Paese dei Balocchi, le sue orecchie d’asino crescono quanto il naso della menzogna e la gara a chi raglia più forte sviscera la perdita di coscienza e umanità nel passaggio sulla terra.

In termini scenici, i segni del burattino che si fa carne si tramutano in drammaturgia della caduta e risalita, quest’ultima tarda ma affidata alla resistenza, al bisogno di rinascere sotto altra pelle e identità. Ecco perché il filo di scrittura scelto da Babilonia Teatri appare senz’altro coerente sotto il profilo del coinvolgimento di tre sopravvissuti al coma. Tre attori non attori in fila in proscenio a rispondere alle domande di una voce fuori campo – quella di Enrico Castellani che con Valeria Raimondi firma il progetto e premio Hystrio 2012 alla drammaturgia – delineando l’incrocio a volte fortuito, altre sostenuto teatralmente tra la sospensione del corpo immobile nella bolla degli ospedali e la ripresa delle facoltà concesse secondo età, memorie, legami, istinti e confessioni.

Ogni risposta dei tre Pinocchio riferisce di una condizione del coma alternativamente come tuffo da un pontile nell’inconsistenza dell’aria, automobile da cartoon vuota o buco da cui filtra una luce flebile cui è faticoso avvicinarsi, se non dopo il superamento di molti ostacoli. A intervalli di risposte ed esperienze, tra l’ammissione di ricordi vuoti nel limbo dei ricoveri, del fin di vita e la ripresa del proprio fisico traballante e prosciugato nei movimenti e nella coreografia di ciò che resta – suggerita peraltro da un quarto Pinocchio-copione presente in scena con un finto naso di carta – si inseriscono brani di musiche arcinote, amate da chi si svela o scelte per verticalizzare il sentimento alle spalle di chi non è ancora reinserito, riabilitato, realizzato.

In quel preciso dilatarsi del racconto personale, della testimonianza degna d’urgenza, si recide tuttavia più volte proprio il cordone ombelicale con il Pinocchio di Collodi, riagganciato solo alle ultime scene, quando i tre protagonisti, dopo aver improvvisato i propri incidenti, essersi espressi sulla fata dei sogni e la nostalgia di un paese dei balocchi dove ancora si balli e ci si innamori, crollano su stessi. Atto fondante sia dell’abbandono del primo strato legnoso, sia del malato che copre se stesso o si scopre fantasma. Quel che precede e osserva i tre seduti a scorrere cartoni che riportano scritta in pennarello nero la traduzione di Yesterday è la lunga durata della condizione del cambiamento più frastornante e tragico: l’esserci e non esserci più per settimane e mesi, per poi tornare a galla poggiando su una terra che i piedi e le articolazioni calpestano con lentezza e sincopi. L’accettazione della metamorfosi è ribadita da musiche che in parte invadono o segnano troppo la solitudine intimista di Pinocchio, issato a volare come fosse un uccello spericolato e libero.

Il momento del gioco, del ritorno al passato che non si riconosce più come il burattino di legno gettato in un angolo fa il paio con una ricerca che Babilonia Teatri ha già proposto con The end, discorso dialogico prima e monologato poi sull’urgenza di un boia per farla finita con le agonie di ogni malato impotente, per essere cenere e pace. E, laddove in modo urlato e solipsistico un attore ricomponeva in scena la sagoma fatta a pezzi e sparsa di un Crocifisso, così Pinocchio intaglia un copione sul filo pericoloso del limite tra convenzione e nudità. Gli arbitri assoluti sono i sopravvissuti, ma il giudizio spetta al superamento delle diffidenze verso alcuni didascalismi, come verso chi potrebbe impadronirsi della dignità del mostro spettacolarizzato.

Da quando nel 2007, passando per il Premio Scenario, si sono imposti nel panorama nazionale con il loro made in italy, i veronesi Babilonia Teatri hanno collezionato una serie ininterrotta di successi, mettendo per una volta d’accordo pubblico e (gran parte della) critica. In realtà il loro percorso artistico era già iniziato qualche tempo prima, ma certo quella è la data della loro “conclamazione” come realtà di primo piano all’interno del cosiddetto teatro sperimentale (nel 2009, insieme a Santasangre, Muta Imago e Teatro Sotterraneo vincono il Premio Ubu Speciale “per la capacità di rinnovare la scena, mettendo alla prova la tenuta del linguaggio e facendo emergere gli aspetti più inquieti e imbarazzati del nostro stare nel mondo”). Da lì in avanti il gruppo – fondato nel 2006 da Enrico Castellani e Valeria Raimondi – non ha compiuto alcun passo falso, proponendo in sequenza spettacoli inquietanti e complessi come Pop Star, Pornobboy e The End.

In tutta questa prima parte della sua produzione la compagnia, puntando il proprio sguardo corrosivo di volta in volta su un tema differente, impernia le proprie caustiche creazioni sceniche su alcuni elementi comuni: a una parola scarnificata e fluviale, privata di qualsiasi funzione e struttura drammaturgica e lanciata addosso agli spettatori da corpi altrettanto indifesi e “nudi”, fanno da controcanto pochi, significativi oggetti di scena e lacerti sonori, motivetti, canzoni d’autore che appartengono all’immaginario collettivo e che vengono spesso usati a mo’ di contrappunto. Con questo schema, nelle sue molte possibili variazioni, sono affrontate questioni di spinosa e cruciale attualità: dai più beceri (e pur tuttavia duri a morire) luoghi comuni e pregiudizi che contraddistinguono il Nord Italia più rozzo e provinciale alla coltre che affligge e uniforma in senso pornografico l’informazione e la comunicazione, dalla frustrazione disperata e nichilista dell’uomo e della donna contemporanei (punteggiata dalla voce soave di Laura Pausini che trionfa a Sanremo) alla (im)possibilità di decidere della propria vita (e del suo termine).

Queste tematiche sono trattate in modo “oggettivo”, senza pregiudizi ideologici, e acquistano nuova pregnanza anche grazie alla dimensione “corale” con cui vengono proposte. Una coralità percepita, paradossalmente, anche quando c’è solo un attore in scena, e alla quale contribuiscono in ugual percentuale parole e gesti, offerti, o meglio “gettati” frontalmente al giudizio dello spettatore. Tali caratteristiche tornano, rinnovate, anche nel magnifico The End (Premio Ubu 2011 come miglior novità italiana), nuova tappa dell’esplorazione del gruppo, rivolta alle diverse età della vita. La morte rimossa, abbellita, rinviata, esorcizzata dalle manie d’eternità del mondo d’oggi è convocata in scena attraverso la solitaria presenza catalizzatrice di Valeria Raimondi in un monologo appunto “corale” in cui con grande efficacia convivono momenti di stridente invettiva e altri, altrettanto incisivi, più poetici ed elegiaci.

Ma appena prima che la critica nostrana, sempre bulimicamente ansiosa di novità, levasse il suo De Profundis sugli “stilemi divenuti maniera”, o sull’“esiziale pericolo della ripetizione di strade già percorse” (c’è una certa costanza in queste formule rituali, con le quali talvolta si decreta il declino di artisti osannati fino al giorno prima) i Babilonia stupiscono tutti con un approccio inedito, che però condivide con le esperienze passate il rigore (estetico ed etico) della ricerca. Questo avviene con l’ultimo lavoro, Pinocchio, che ha esordito l’8 dicembre al Teatro Storchi di Modena e sta ora girando per il Paese (il 15 giugno poi, al Napoli Teatro Festival Italia, debutterà Lolita, nuovo viaggio intorno a una fase difficile e straordinaria della vita come l’adolescenza).

Lo spettacolo nasce dall’incontro con l’associazione bologneseAmici di Luca, che riunisce persone uscite dal coma. Tre di loro –Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli– sono i protagonisti assoluti. Il portare la malattia a teatro, se non si ha la genialità visionaria del Pippo Delbono dei tempi di Barboni, rischia sempre di debordare nel patetico, assecondando – non per forza consapevolmente, il che è anche peggio – il sentimentalismo di chi attua e di chi osserva.

Ebbene questo rischio Pinocchio non lo corre mai, forse anche grazie alla sua particolare struttura, che vede Enrico Castellani nei panni (nascosti, perché se ne sta in cabina di regia, e si sente solo la sua voce) di intervistatore/conduttore e i tre “attori” in quelli di “intervistati”. Come di consueto, non c’è interpretazione né recitazione, solo domande poste con controllata ironia, e risposte che svelano progressivamente le storie personali di chi sta in scena.

Il personaggio di Collodi – cui il “copione” continuamente rimanda – sta a simboleggiare il passaggio da un tipo di esistenza a un altro, e rende perfettamente l’idea della differenza siderale tra il presente e “l’altra vita”, quella precedente al trauma subito. Attraverso questi tre corpi seminudi, dolenti, segnati, diversi per età e vissuto ci vengono narrati altrettanti presenti fatti di sofferenze, sogni, ricordi, desideri… “Il testo – spiega Enrico – nasce da una serie di improvvisazioni su palco compiute con gli attori, da cui poi abbiamo tratto il materiale migliore. In ogni replica il livello di improvvisazione è molto alto, ci sono solo degli ‘appuntamenti’ fissi che costituiscono i vari momenti dello spettacolo. Ma proprio per evitare che dalla ripetizione sorga una ‘recitazione’ mnemonica cambio spesso le mie domande, cercando di spiazzarli ogni volta”. In questo continuo botta e risposta, che all’inizio sembra estremamente esilarante, ma nel quale poco a poco fa capolino l’amarezza e il dolore di chi si trova nella condizione di “risvegliato”, vengono evocate fate turchine dal corpo sinuoso e dall’animo buono e paesi dei balocchi che prendono le forme e i contorni della vita passata, rimpianta da un lato e superata dall’altro. In questo contesto, fortissima emozione provoca la “trasformazione” di uno degli attori (Paolo Facchini) in asino, con le parole che un po’ alla volta diventano lancinanti ragli, o i movimenti meccanici di Luigi Ferrarini, che obbedisce ai comandi di un Pinocchio over size (impersonato da Luca Scotton) per poi venire issato e tenuto sospeso come una vera e propria marionetta. O ancora il viaggio apotropaico che simula Riccardo Sielli sopra una moto che in realtà è una seggiola. La storia di Collodi, con i suoi personaggi paradigmatici e i suoi luoghi simbolici, è dunque il tracciato ideale dove inserire altre parabole esistenziali, oltre che esplorare nuove vie alla teatralità (come insegna peraltro la grande lezione di Carmelo Bene, che con questo strano, affascinante romanzo si è misurato a più riprese per quarant’anni).

Né interpretazione né recitazione, si diceva. Eppure questo Pinocchio presenta un’essenza eminentemente teatrale sin dalla sua concezione, nascendo come abbiamo visto da un lungo lavoro d’improvvisazione. La forma/intervista poi, nella finzione che presuppone e di cui tutti – attori, registi, pubblico – sono coscienti, oltre a condurre con apparente leggerezza lo spettatore all’interno di tre drammatiche esperienze individuali, permette anche un raffinato gioco metateatrale. Così capita che Enrico Castellani, a una risposta “fuori copione” da parte di uno degli attori, replichi a sua volta con una frase come “Lei lo sa che a teatro certe cose si possono dire e altre no?” E questa domanda ironicamente nega uno dei punti di forza che sembrano caratterizzare la poetica dei Babilonia: la convinzione che a teatro, invece, si possa (e anzi si debba) dire tutto, anche a costo di scontentare le aspettative, rompere l’empatia e creare scandalo, come – per restare ai tempi recenti – sosteneva il teatro visionario e radicale di Sarah Kane.

C’è un grosso Pinocchio che sembra cresciuto e divenuto adulto suo malgrado. C’è l’umanità di tre uomini usciti dal coma dopo un evento traumatico che li ha condotti fino all’anticamera della morte. Le cure mediche e la forza di volontà nel voler reagire ad una condizione di invalidità permanente, il coraggio nel cercare di tornare ad una vita il più normale possibile, sono gli elementi costitutivi caratterizzanti il percorso di vita di Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Selli, segnati nel corpo e nello spirito ma pronti a rimettersi in gioco grazie ad un gemellaggio tra la compagnia dei Babilonia Teatri e gli Amici di Luca di Bologna, dedita al sostegno riabilitativo – psicologico delle persone colpite da esiti da traumi cerebrali. L’idea nasce come un progetto pensato per raccontare sulla scena la loro esperienza, spogliati anche fisicamente – sono a torso nudo insieme al Pinocchio alias Luca Scotton – in grado di creare una sorta di dialogo-intervista, guidata abilmente da Enrico Castellani che li incalza di domande serrate e li conduce verso un terreno pericoloso. Il rischio (cosciente) è quello di trasformare le loro storie di vita in una sorta di pietistico racconto e svilire il percorso terapeutico intrapreso, che trova la sua compiutezza in una rappresentazione non convenzionale e anti-teatrale, cifra stilistica dei Babilonia, dediti da sempre a ricercare linguaggi espressivi non convenzionali.

Pinocchio è una sorta di trait d’union tra la favola di Collodi e la verità aneddotica dei tre uomini a cui la vita ha riservato una prova da superare non facile. Ritornare nel mondo degli adulti dopo essere stati accuditi in tutte le loro funzioni vitali primarie. La storia del burattino di legno che voleva diventare essere umano, qui assume un significato esistenziale profondo: l’uomo che riscatta se stesso da una condizione di impotenza e di deprivazione sociale. Desideri, sogni, fantasie si scontrano con una società poco incline ad accettare i “diversamente abili”. La normalità è una condizione desunta da comportamenti socialmente accettati in cui viene richiesto di essere al massimo delle proprie prestazioni vitali, fisiche e psichiche. La voce fuori campo di Castellani serve

anche a tracciare un ring in cui Paolo, Luigi, Riccardo, si muovono fino a quando “l’arbitro” lo consente. Uscire da un canovaccio drammaturgico concordato, viene subito interrotto per riportare lo scorrere della narrazione intessuta di ricordi e di abitudini pre-trauma, poi divenuti ricordi un po’ nostalgici. Il pubblico viene chiamato ad una partecipazione emotiva non mediata da artifici di facile effetto. Non c’è distanza tra la scena e la platea, volutamente annullata dalla veridicità della

testimonianza che assume un valore condiviso tra chi la racconta e chi l’ascolta. La mediazione tra le loro esperienze e la sensibilità di chi assiste è data dall’empatia che scaturisce dalla dialettica che scorre, la loro genuina partecipazione fisica e il senso di incompiutezza nel trovare delle risposte, a quesiti posti con sensibilità grazie anche a slogan apparsi su cartelli che i tre tengono tra le mani come: “Ieri, ieri, … ora vorrei che fosse ieri”. Sono se stessi e non fingono e si pongono come partecipanti anche in un registro ironico nel disinnescare il portato doloroso della loro esperienza pregressa. Non si tratta certamente di una forma di teatro sociale quanto un’esperienza umana e artistica in grado di valorizzare la propria condizione senza dover ricorrere a forme di sublimazione

rischiose. Sono loro stessi a farlo e ad accettare la fatica di stare in scena in piedi, “interrogati” anche su temi scabrosi come la loro sessualità, divenuta un miraggio dopo l’incidente. La retorica, se pur presente, trova una sua definizione necessaria senza mai prevaricare sull’esito finale che riserva sinceri applausi, convinti da chi non ha esitato a mostrarsi senza falsi pudori. Questo Pinocchio non sa dire le bugie e il suo naso non si allunga.

Con Pinocchio salta ogni estetica, lo sguardo teatrale non tiene e alla fin fine non tiene neppure il riferimento al Pinocchio collodiano, perché la vita è più forte della sua rappresentazione, perché i corpi e le storie di Paolo Facchini, Riccardo Sielli e Luigi Ferrarini sono vita che scotta, risorge e pretende di essere.

Pinocchio dei Babilonia Teatri è un non/spettacolo, è non teatro, o forse è teatro perché in fondo è incontro di persone, è racconto di vite tornate a vivere, di uomini usciti dal coma con una disperata vitalità buttata in faccia allo spettatore. Ed è lo stesso Enrico Castellani a spiegare questo Pinocchio esploso fra le mani: «Volevamo fare Pinocchio, ma poi le storie di Paolo, Riccardo e Luigi hanno avuto la meglio e la storia collodiana è rimasta sullo sfondo» come segno di uno spettacolo che ha preso una via diversa, quella di un non spettacolo, il racconto della sofferenza. Babilonia Teatri ha lavorato con i ragazzi della compagnia Gli Amici di Luca, centro che da anni utilizza il linguaggio della scena per aiutare a ridare una relazione e socialità a persone uscite dal coma, molto spesso in seguito a incidenti stradali. La scena in Pinocchio è vuota, Paolo Facchini in bermuda beige, Luigi Ferrarini imbragato mostra i segni del suo post-coma in una fisicità piegata, Riccardo Sielli è delle parti di Rubiera e mostra un bell’accento emiliano che rincuora.

Di fianco a loro Luca Scotton nella sua pingue fisicità con indosso un naso di carta alla Pinocchio. Dalla consolle della regia Enrico Castellani fa loro delle domande, chiede di raccontare la loro storia, se sono alla ricerca della loro Fata, chiede loro di dirsi, ma anche di elencare personaggi e luoghi del romanzo collodiano, di dire chi sono oggi e chi erano ieri, con una serie di cartelli che straziano il cuore. Ed è questo che è forse Pinocchio: un incontro con la sofferenza e pure la voglia di andare oltre quell’incidente, di andare oltre il tunnel nero per riemergere alla luce. Quegli uomini mostrano la loro fisicità ferita, i loro movimenti a scatti, difficoltosi, raccontano di una normalità perduta, di sere passate in discoteca in cerca di rimorchiare, della moto che a un certo punto ti tradisce, di quella processione di platani che ti taglia la strada, di una lenta ma caparbia riabilitazione…

Eppure in tanta vita così mostrata e detta c’è a tratti un’estetica che commuove.

Commuovono quei tre uomini/burattini nel loro muoversi a fatica, commuovono quei corpi che tornano ad agire, mossi da un burattinaio invisibile, fa venire un groppo alla gola lo stare lì di Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli con a lato seduto l’abbondante Pinocchio di Luca Scotton che li guarda, come se tutti loro fossero quel burattino lasciato in disparte dopo che finalmente Pinocchio s’è fatto bambino… Sarà ma il non spettacolo di Babilonia Teatri è un incontro, un bell’incontro col dolore e la voglia di vivere, senza retorica ma vissuto con l’immediatezza di un dialogo naturale e costruito con intelligenza e passione da Enrico Castellani, l’esito di un bisogno: creare relazioni e magari iniziare laddove la relazione con la vita s’era interrotta.

Un lavoro o evento scenico della compagnia veronese che si avvale di una energia speciale, straordinaria derivante dell’esperienza vissuta realmente, drammaticamente, da tre uomini usciti da uno stato comatoso. Quasi una forma di teatro-verità che genera stupore, incanto, emozione. Un teatro povero, ma ricco di poesia, grazie alla forza dei tre attori non attori, una forza sovrumana che nasce dalla loro fragilità.

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Mi sono emozionato. Ho visto Pinocchio con il cuore e con la mente. E mi sono emozionato come non mi accadeva da molto tempo. Ho sorriso anche, stimolato dalla ironia dei tre protagonisti. Tre uomini. Tre storie. Un destino comune: l’esperienza del coma a causa di un incidente automobilistico.

Gli ingredienti dello spettacolo. Meglio, dell’evento. Primo fra tutti il coraggio. Il coraggio di Babilonia Teatri e degli “Amici di Luca” che hanno lavorato alla elaborazione del progetto e il coraggio dei tre uomini – Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli e Paolo Facchini –, che hanno voluto raccontare la loro storia.

La raffinata perizia dei “babilonesi” è servita non a fare un teatro fondato sui ritmi e sulle energie vitali (difficile a farsi), ma a portare la vita in teatro (che è ancora più difficile).

Dunque, in questo Pinocchio, visto al Teatro Palladium (Università Roma Tre, Romaeuropa), c’è il coraggio e la perizia necessari a creare un fatto che sta al di là dei generi di teatro. Un evento sinestetico, fondato su una miscela a matrice fisica multipla. E c’è Pinocchio, la Fata Turchina (in cima ai desideri dei tre protagonisti). C’è il Paese dei Balocchi, Lucignolo e l’Asino con le orecchie lunghe che raglia.

Nel corso delle sequenze un paio di volte gli interlocutori parlano di battute da inserire nel testo, ma non credo che il testo linguistico sia stato mai scritto. Semmai è stato scritto a posteriori, dopo la scrittura scenica. Valeria Raimondi ed Enrico Castellani sono partiti dal dato certo della realtà incarnata dai nostri tre performers. Stimolati dalla voce fuori campo di Castellani, rispondono che il coma è una “assenza“, una “sospensione”. Della morte apparente non ricordano nulla e ci raccontano invece, senza pietismo, il momento del risveglio, il passaggio verso la reversibilità del coma stesso. La vita interrotta riprende a fluire dopo averli profondamente cambiati e vive ancora nel corpo/mente come una esperienza estrema, dolorosa, che ha interessato gli aspetti materiali e immateriali della loro esistenza. Se nel teatro della mimesi trionfante di verità si muore, in questo spettacolo di verità si vive, e si prova il brivido dello stupore, dato dall’insieme della parole e delle azioni che lo costituiscono.

Penso che Raimondi e Castellani abbiano lavorato alla scrittura scenica mossi da una vigorosa necessità artistica, condizione essenziale per la buona riuscita del fare teatro. Credo che prima abbiano elaborato il testo fisico e poi abbiano preso in considerazione la tessitura della scrittura scenica, scartando la scrittura del testo linguistico. Che abbiano praticato questa o un’altra metodica conta relativamente. Contano i fatti e i fatti, cioè i risultati dell’operazione, sono di assoluto valore sociale, artistico e professionale. Presumo che il coraggio, la perizia e la spinta derivante dalla necessità artistica abbiano favorito la leggerezza poetica della pluralità del linguaggio e allo stesso tempo la intensità della strategia tesa a portare sul palcoscenico non quella vita che riguarda le ben note forme di realismo o di naturalismo scenico, ma la vita che porta con sé l’energia speciale dell’esperienza vissuta realmente, drammaticamente, dai tre uomini usciti dal coma, dunque sostanzialmente diversa dalla energia vitale dei processi organici autogestiti dagli attori professionisti che lavorano sulle azioni fisiche.

E i risultati? Lo stupore. L’incanto. L’emozione. I tre attori non attori di Pinocchio sono la vera forza dell’evento o dello spettacolo teatrale che dir si voglia. La loro forza è sovrumana (così appare), ma nasce dalla loro fragilità. Sono gli autori veri dello spettacolo. Portano dentro, in modo lineare ma mai banale, resistenza e precarietà, assenza e memoria, drammaticità e ironia. Giocano in modo serio e convinto come fanno i bambini. Assecondano la tecnica della testimonianza diretta e la tecnica della dimenticanza, lasciando che la realtà riaffiori dopo molto tempo per essere ri-creata con significati diretti e di rimbalzo, con una delicatezza e una semplicità che ha il potere di conquistare lo spettatore. Il grande merito dei nostri performers è quello di mettere l’osservatore a suo agio, di farlo sentire utile, di attivare cioè la sua partecipazione, che si concretizza in una drammaturgia che è – dopo quella del regista – di seconda generazione, quella appunto dello spettatore. Come si sa, non si va a teatro per diventare buoni, più sapienti o più educati, ma per provare sentimenti, emozioni, interesse e divertimento anche di fronte a racconti di violenta drammaticità.

I risultati di Pinocchio sono quelli di un “teatro povero”, fatto di poche cose (quattro riflettori per illuminare i corpi, qualche brano musicale, un paio di canzoni, due microfoni e alcuni oggetti funzionali alle azioni fisiche), ma ricco d’idee e di poesia. Un teatro che segna la differenza tra il divenire e il diventare, dove il divenire sta per quella dilatazione dell’anima, cioè del corpo/mente del performer, che contribuisce a determinare la dilatazione del corpo/mente dello spettatore: una pedagogia che non ha scopi didattici, ma che offre a chi osserva la possibilità di fare una esperienza che lo cambia nel profondo. A Luigi Ferrarini che si sente un fantasma, a Riccardo Sielli che dice che Pinocchio è tornato Pinocchio e a Paolo Facchini che è tornato Facchini va il mio ringraziamento per il coraggio che mi ha dato coraggio.

A Pinocchio si allunga il naso quando dice le bugie e crescono coda e orecchie da asino quando va nel paese dei balocchi. Pinocchio viene mangiato dalla balena, ha un grillo parlante e una fata turchina. Pinocchio da pezzo di legno si trasforma in bambino.

Pinocchio è la fiaba che Valeria Raimondi ed Enrico Castellani mettono in scena in filigrana sul palcoscenico per far parlare Paolo, Luigi e Riccardo, tre uomini che, come il famoso personaggio di Collodi, hanno subito una trasformazione. Loro hanno dormito un sonno lungo due mesi e si sono risvegliati per cominciare da capo, ripartire da zero. Il coma li ha cambiati e ha cambiato le loro vite, il loro fisico e il loro posto nel mondo. Paolo, Luigi e Riccardo sono veri così com’è autentico tutto ciò che dicono o dimenticano di dire.

Sono in piedi su un palco occupato solo da un altro personaggio che indossa con fierezza il lungo naso da Pinocchio. La voce fuori campo di Castellani li interroga, li ammonisce quando parlano l’uno sull’altro o tergiversano e scherza con loro. Parlano della mancanza di una fata turchina, del loro desiderio di averne una e di come vorrebbero che fosse oppure danno corpo a delle scenette che li vedono protagonisti seguendo ciò che quella voce gli indica di fare.

Sono talmente autentici nelle loro interpretazioni che risulta difficile comprendere dove finisca la realtà e inizi quella finzione che, dopotutto, finzione non è.

Sono nuovi e guardano al loro passato pensando a quanto sarà diverso il loro futuro, un

futuro che ormai è presente e che li vede combattere per riprendere in mano la loro vita, perché loro ci sono, loro vivono. Yesterday di John Lennon in sottofondo per ripensare a ciò che è stato e Vita spericolata di Vasco Rossi per immaginare ciò che vorrebbero che la loro vita diventasse.

Lo spettacolo che gli dà voce è l’esempio più chiaro di come il teatro possa essere lo strumento per ricostruirsi, ritrovarsi e darsi una nuova possibilità. Un teatro che vede l’incontro tra Raimondi e Castellani e l’associazione degli Amici di Luca, il gruppo impegnato nella riabilitazione di chi esce dal coma attraverso l’attività teatrale. Paolo, Luigi e Riccardo, membri dell’associazione, hanno avuto un’altra possibilità e hanno ricominciato a vivere. Pinocchio sono loro con le loro debolezze e limiti, ma anche con quella voglia di non farsi sfuggire la possibilità di iniziare di nuovo, seppure in un’altra pelle.

Cosa rimane? Un lungo applauso, sentito, sofferto, dedicato dal pubblico ai quattro ragazzi sul palco che sono la dimostrazione che non è facile resettare una vita, ma non per questo si deve aver paura di rimettersi in gioco e dimostrare che, nonostante tutto, si vuole continuare a ri-vivere.

Cosa si prova quando si esce dal coma? Ce lo spiegano i tre protagonisti di Pinocchio, spettacolo di Babilonia Teatri e la Onlus Gli Amici di Luca: una sceneggiatura senza pietismi, nè polemiche in cui vige la regola della libertà, della comicità e dell’ironia. E che alla fine lascia il tempo per riflettere.

Tutti ricorderemo la favola di Pinocchio, il burattino nato dalla penna di Collodi che un bel giorno, dopo varie peripezie, riesce finalmente a diventare un bambino vero: partendo da questa metafora Babilonia Teatri, compagnia teatrale attiva nel campo del teatro di ricerca (Premio Ubu 2011) e Gli Amici di Luca, associazione bolognese che si occupa delle persone risvegliatesi dal coma, stanno portando in scena in vari teatri italiani lo spettacolo teatrale “Pinocchio”.

A Roma, grazie alla fondazione Romaeuropa, lo spettacolo è andato in scena al Teatro Palladium in quel quartiere magico e retrò che è la Garbatella.

Relegare questo spettacolo ad una mera recensione, ad un descrizione di ciò che avviene su un palco spoglio e volutamente povero, con tre protagonisti seminudi e con difficoltà motorie che interagiscono con una voce fuori campo sarebbe estremamente riduttivo.

Quello che colpisce, infatti, durante tutto lo spettacolo è l’estrema umanità, la corporeità di questi protagonisti interrogati di volta in volta per cognome dalla voce di Enrico Castellani (alle spalle del pubblico) che incanala il discorso sui sentieri del passato, quello del Pese dei Balocchi in cui ognuno si sente invincibile e irrefrenabile, passando poi per il coma, per quel tunnel nero nero stando alla descrizione degli attori, dal quale riesci a scorgere una sola lucina gialla che cerchi disperatamente di raggiungere, arrivando poi al presente in cui il corpo è di nuovo protagonista e le cure che gli si riservano per tornare ad uno stato di normalità motoria sono dei piccoli traguardi che rendono la strada meno dura. E così Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e il più giovane Riccardo Sielli si raccontano al pubblico, con estrema semplicità e senza alcuna forma di pietismo: non ci sono polemiche politiche né denunce, non ci sono colpe né rimorsi. C’è solo la salda e chiara consapevolezza di una condizione presente, tragico effetto di un momento sconsiderato (per tutti e tre i protagonisti il coma è stato causato da un incidente, in moto o in macchina) che ora deve essere non pagato ma superato, grazie alle terapie, grazie al teatro.

Luca Scotton, un Pinocchio in pantaloncini con un naso lungo di carta, assiste in silenzio a tutto lo spettacolo in cui le risposte dei tre protagonisti, disposti in orizzontale sul palco, si intervallano a momenti di lettura della favola di Pinocchio e di intermezzi musicali.

Cosa rimane allora di uno spettacolo teatrale così? Rimane quel senso di ironia che guida tutto il copione e gli interventi a braccio, il coraggio di guardare negli occhi una vita che ti ha chiuso bruscamente una porta in faccia ma che poi ti ha riaperto una porticina di servizio e la consapevolezza che, in fondo, nulla nella vita è scontato oppure conquistato del tutto “L’azione teatrale riesce ad avere un effetto riabilitativo che incrementa il nostro progetto di integrazione sociale – afferma il direttore del centro studi per la ricerca sul coma all’interno della Onlus Amici Di Luca, Fulvio De Nigris – un’esperienza che è stata molto utile per il loro reinserimento e ancora lo sarà per altri ragazzi che stanno compiendo quel difficile e lungo cammino verso il risveglio.”

Si spegne la luce, si arresta la musica. I protagonisti restano immobili. Il pubblico applaude, commosso. Mi giro per capire se qualcun altro, come me, ha gli occhi umidi e non mi sorprende vedere che la ragazza seduta di fianco a me fa lo stesso.

Tutta la platea si alza in piedi e applaude, come fosse lo stesso profondo gesto liberatorio che gli attori hanno fino a quel momento compiuto, tra una risata pianificata nella sceneggiatura e una genuina, libera, inaspettata.

Sono decenni ormai che il campo di ricerca teatrale si è allargato fino a inglobare quartieri dell’azione sociale che vedono nell’arte una terapia funzionale. Il teatro come attività di recupero e creazione è sperimentato un po’ dappertutto: comunità psichiatriche, centri anziani, carceri. Numerose sono le compagnie miste costituite da normodotati e disabili, fisici o psichici. Insomma il teatro fa bene, verrebbe da dire: mettersi in gioco, stare in scena, provare a superare i propri limiti, esercitare l’espressione verbale, sono non solo una valvola di sfogo ma parte di un percorso riabilitativo lungo e complesso come nel migliore degli sport. E non c’è nulla di male nell’utilizzo di codici ed esercizi teatrali per un fine non direttamente (o non solo) artistico. Le grane, l’ambiguità e il conseguente rischio di annebbiare il lavoro terapeutico rispetto a una sua comunicazione pubblica, stanno invece nella precisa scelta di vedere nel momento spettacolare il terminale di questo percorso. In questo caso il rapporto tra platea e scena immediatamente si altera: è accaduto al Teatro Palladium durante il secondo spettacolo portato da Babilonia Teatri nella stagione della Fondazione Romaeuropa. Infatti in questo Pinocchio volutamente ingenuo, naif e antiteatrale è stata l’alterazione di un certo “mood” a colpire maggiormente l’attenzione di chi scrive. Ci siamo scoperti a sorridere e ridere di battute e gag che in occasioni diverse ci farebbero storcere la bocca. Situazioni che bolleremmo come “amatoriali” o teatralmente involute, più adatte alla televisione.

Ma facciamo un passo indietro. Lo spettacolo preso in causa arrivava sul palco del Palladium dopo il debutto di The rerum natura, che ingenerosamente potremmo definire come uno spin-off di The End, ma che in realtà risulta più efficace del lavoro originario.Pinocchio scompagina invece i piani: il gruppo definito più volte come artefice di un teatro punk diventa qui immediatamente buonista, classificabile, intellegibile e portatore di una funzione “sociale”. Lo spettacolo nasce infatti dalla collaborazione tra Babilonia Teatri e l’associazione Amici di Luca della Casa dei risvegli Luca De Nigris di Bologna. Tre i protagonisti, che portano sé stessi sul palco (Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli), le proprie vite. Come al solito niente personaggi, al bando qualsiasi correlazione logica tra elementi di un probabile tessuto finzionale. È la realtà a dominare, i tre attori

dalla platea salgono sul palco dove rimarranno in riga per quasi tutta la durata. Dalla regia la voce di Enrico Castellani (regista insieme a Valeria Raimondi) li guida, chiede loro di presentarsi di raccontare la propria storia, chiede se hanno una fidanzata, se la preferiscono bionda o mora.

Poco altro succede se non qualche accenno proprio a Pinocchio. E allora cosa tiene la tensione alta tra gli spettatori facendoli sorridere ed emozionare quando la tragedia viene raccontata? Cinicamente verrebbe da rispondere che alla base dell’accettazione del pubblico ci sia proprio il coraggio con il quale i protagonisti di queste storie di risvegli post coma affrontano la propria vita. Sono lì sul palco davanti a noi non solo a raccontare (in maniera ironica e grazie al dispositivo teatrale in modo distaccato) le proprie vicissitudini, ma anche – forse involontariamente – a ricordarci la nostra fortuna: in quella macchina non c’eravamo noi, come non eravamo alla guida di quella moto. Non ci siamo svegliati dopo mesi di coma con i muscoli atrofizzati e la parola incapace di interpretare i pensieri con la velocità e il rigore fonetico a cui eravamo abituati. È una stretta al cuore: la vita prima dell’incidente, la giovinezza rubata, la prima parola detta. E a dircelo ingabbiandoci sulla poltrona quasi con un coltello puntato alla gola non è un attore: saltato il filtro artistico dato dall’interpretazione salta anche la relazione convenzionale. Eccola allora quell’alterazione di equilibrio tra platea e palco che travolge la quarta parete meglio di qualsiasi teorema o di trovata scenica. Agisce dentro lo spettatore, a priori, e probabilmente accadrebbe al di là del reale tentativo di Babilonia di narrare una rinascita, che troppo facilmente si specchia nella vicenda del burattino collodiano.

La compagnia Babilonia Teatri ha attinto gli attori dalla casa Risvegli di Bologna con la quale ha realizzato un laboratorio teatrale chiamato “Gli amici di Luca” (ma Luca non si è mai risvegliato dal coma). Gli attori sono quindi reali ex pazienti usciti dal coma. Le porte del Teatro Palladium alla Garbatella si aprono alle 20,30, la bella sala accoglie gli spettatori e con i suoi sedili colorati sembra riportarli agli anni ‘60. Stupisce immediatamente la presenza di un uomo obeso, vestito solamente di un pantalone corto e seduto sul palco in legno. Ha un naso di carta, da pinocchio, un naso lungo come un cartoccio per i semi di girasole. Mentre ognuno prende il proprio posto assegnato, probabilmente aleggia il quesito su quell’uomo, in quelle condizioni, in quella precisa posizione.

Solo più tardi si realizzerà che Pinocchio è seduto vicino alla scala di accesso al palco.

Inizia presto la musica, le luci restano accese. Il passo lento di qualcuno precede la sua presenza, neanche ti accorgi che sta arrivando in silenzio tra gli spettatori, percorrendo il corridoio centrale della sala. Anche questo personaggio indossa solamente un pantalone corto, è nudo e scalzo; così come si mostreranno anche gli altri interpreti della scena. È un individuo sui cinquant’anni, di aspetto gradevole e giovanile, cammina tranquillo nel suo percorso per raggiungere il palco, ma presto ci si accorge che la sua lentezza è innaturale e che la sua attenzione è rivolta a se stesso e al suo procedere. L’individuo giunge vicino alla ribalta, Pinocchio gli porge la mano con curata attenzione, l’uomo si fa aiutare volentieri e sale su prendendo posto in piedi sulla scena, rivolto verso gli spettatori. Resta fermo così.

Nel frattempo sta arrivando un’altra persona, un altro attore percorre esattamente lo stesso tragitto con minor lentezza, è un ragazzo e zoppica un po’, anche la mano sinistra ed il braccio hanno un movimento irregolare e scoordinato. Si nota anche il polpaccio sinistro diseguale dall’altro, una menomazione dovuta ad un’operazione, un incidente. Salito sul palcoscenico il giovane – che è molto giovane – prende posto lontano dal primo uomo lasciando uno spazio al centro tra loro due. Anche lui si rivolge ora al pubblico nella medesima posa dell’altro.

L’arrivo del terzo uomo lo subisci come uno squarcio nell’anima, nello stesso punto in cui le due persone precedenti avevano lasciato un segno. Il pubblico è silenzioso, perplesso, non sa cosa aspettarsi e ora non capisce fino a che punto dovrà spingersi. Perché l’impressione di quell’essere umano che fatica a camminare, ferito nel corpo molto più degli altri, il suo barcollare, quando finalmente il Pinocchio obeso lo aiuta a salire, cristallizza il silenzio nella sala almeno fin quando quest’ultimo non entra nel bel mezzo della fila creata dagli altri due. Anche lui si rivolge al pubblico, indossando, oltre ai pantaloncini, un’imbracatura salvavita come quelle degli operai di cantiere. Il terzo personaggio è un individuo spezzato che piega la testa di lato sul busto per non poterla tenere eretta, lascia cadere le braccia lungo il corpo, ma in posizione forzata come un bambolotto rigido. E si inizia a provare compassione, smarrimento. Ma l’uomo, pur destando pena, emana un che di regale, come un eroico leone che, pur ferito, mostra la sua fierezza con orgoglio. Il terzo uomo sembra essere il principe, l’interprete principale di una storia che si sta per raccontare. Le luci si spengono, i riflettori restano puntati sui tre attori rimasti in piedi che sembrano come sotto processo, esseri colpevoli. Una voce inizia ad interrogare i personaggi, chiede i nomi, precisa di dire e fare solamente quello che verrà chiesto. I tre appaiono docili e stanno al gioco. Il primo personaggio entrato è Paolo, il secondo Riccardo, il terzo Luigi. È sempre l’ultimo, il leone, quello che colpisce più di tutti: ha difficoltà a parlare così tanto che si comprende a malapena ciò che dice. Luigi fa di tutto per farsi capire, con le espressioni del viso che vorrebbe restare immoto, con il corpo inerte, con le braccia che muove faticosamente, con le mani che aiutano, con i segni, con tutto per esprimere meglio i concetti. E le mani spesso indicano numeri e lettere, così Luigi non risparmia nulla di se per non restare incompreso.

Lentamente lo spettacolo prende quota, tra la voce che sembra ordinare di parlare, comandare i movimenti come a delle marionette – Pinocchio resta sempre nell’ombra, l’uomo obeso che serve da spalla a coloro che si trasformeranno come in una metamorfosi – che sudano, si confondono, cercano di spiegare come è successo l’incidente, in un tempo qualsiasi delle loro vite; realtà cambiate o addirittura scambiate con quella di un altro, un altro loro che non esiste più. Un mese di coma, due mesi di coma, venticinque giorni di coma. Paolo, Luigi e Riccardo rinascono un giorno in un altro corpo. Ma un corpo che è rotto. E loro non saranno mai più gli stessi. Riccardo si sveglia tra le coccole dell’infermiera e quasi gli viene voglia di far l’amore. Paolo si alza in piedi ma non sa

camminare più. Luigi ha una gran fame. Ognuno di loro pronuncia la prima parola della nuova vita, una parola stupida come “purè” o “ahia”. Ognuno di loro descriverà la non vita, la fatica immane per raggiungere una luce lontana piccola come la punta di un ago o la sospensione in una nebbia, o un sonno infinito.

Ci sono momenti di malinconia, di ilarità, di banalità, di poesia. Paolo che balla e balla fino a sfinirsi come quel giorno in cui terminò la sua precedente esistenza. Riccardo che finge nuovamente di andare in moto su una sedia. E poi Luigi. E’ chiaro all’improvviso il significato dell’imbracatura: Luigi viene sollevato da terra con delle funi, come alleggerito del peso di quel fisico danneggiato; l’attore muove le braccia nell’aria come fossero ali nel desiderio di voler volare via dal corpo che, tuttavia, gli ha conferito il titolo di Uomo rispetto al burattino della vita precedente.

I tre attori, alla fine, hanno regalato la propria deformità fisica, il proprio orgoglio nel mostrarsi per quello che ora sono, la bellezza della vita afferrata con forza e graffiata nell’intento di rubarla alle tenebre del coma dal quale si emerge per rabbia. E nelle loro cicatrici, gli interpreti, ex pazienti, si riaffermano come persone rinnovate.

L’applauso finale è liberatorio per tutti: per chi resta sul palco, felice di aver saputo affrontare una nuova sfida, e per chi esce dalla sala, portandosi dietro la leggerezza della vita che, per un attimo, ci sembra di stringere un po’ più forte tra le mani, per sapere che c’è.

Lo spettacolo nasce da un progetto con l’associazione “Gli amici di Luca” che lavora a Bologna con le persone uscite dal coma incentivando percorsi terapeutici che aiutino a riprendere un contatto con la realtà. Da sempre convinti dell’importanza del confronto con esperienze teatrali fuori dal solco tradizionale della messa in scena, i Babilonia Teatro, emersi nell’onda del teatro doppio zero come una delle formazioni più portate a intrecciare pop e sperimentazione e a ribaltare la rappresentazione del contemporaneo attraverso i suoi stereotipi più abusati,a proporre una non recitazione come chiave espressiva, hanno chissà perchè preso il Pinocchio di Collodi (visto al Palladium di Roma) non per metterlo in scena ma per raccontare, dalla condizione pinocchiesca, chi esce da una identità per prenderne un’altra non prima di aver percorso quella enigmatica soglia che sta tra là e qua.

Il come raccontano questa condizione è più interessante che bello. In una serie di incontri con i pazienti/partecipanti dell’associazione Amici di Luca, hanno scelto tre persone, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli, tutte e tre uscite dal coma, chi dopo trenta giorni chi meno, tutte offese nell’anima prima ancora che nel corpo, che hanno pagato una bravata o un incidente sfortunato, con la perdita di quello che erano.

E tutto questo è quello che ci raccontano in un palcoscenico denudato, vuoto, dove i tre ex-malati si presentano tutti e tre a torso nudo in proscenio, uno accanto all’altro, intervistati dalla voce fuori campo di Enrico Castellani dei Babilonia che senza troppi complimenti, pietismi, convenevoli, li richiama quando escono dal seminato, li zittisce se parlano troppo ecc… ma intanto domanda, chiede, e scava nei loro ricordi.

Di Pinocchio ci sono alcune coordinate: il paese dei balocchi che diventa il luogo da dove è poi cambiata la loro vita, la fata turchina che è la donna dei sogni, anche erotici…. Un buffo e ciccione Pinocchio (Luca Scotton) con il nasone finto di carta che fa da servo di scena.

Il centro è il racconto umano, intervellato dalle musiche che in genere accompagnano la vita. Emerge la sfortuna e il dolore, il destino e i ricordi. Ed è qui che lo spettacolo arriva su una soglia perigliosa, sospinto tra l’umana commozione pietistica per chi porta addosso le ferite della vita mai disgiunta da una ricca dose di retorica, e lo sguardo vigile che si allunga oltre quelle ferite aprendo degli squarci di profondità dell’animo umano, delle sue debolezze, timidezze, fastidi e del senso della vita, dei grandi sogni, come appunto fa Pinocchio. Ma su questo, Collodi era stato più coraggioso.

Il teatro dei Babilonia è da contraccolpo emotivo duro, da scompaginamento anatomico, da vivisezione sensoriale. Non lascia certo indifferenti, perché procede per suggestioni tradotte in immagini di senso condiviso, che ci legano mani e piedi davanti allo spettacolo pregiudicato dell’umano. Senza lesinare su brutture, impudenze, sadismi della visione e dell’ascolto, ma con un racconto continuamente variato e sempre trainato da un’urgenza del dire che diventa parola. Parola tenera e forte, poetica e violenta, armonica e caustica, perché modulata sulle frequenze di un sentire difficilmente intercettabile, se non per impressioni. Come è avvenuto nei due spettacoli presentati al Palladium. “The Rerum Natura” e “Pinocchio”, i titoli diversi di una riflessione complementare sulla fine e sui tanti inizi possibili. La morte come spettacolarizzazione del trapasso, come arcano insoluto, come antidoto naturale alla pietà e al dolore, è la protagonista indiscussa del primo progetto, che sotto la natività annientata di un Cristo crocifisso accanto alle teste penzoloni del bue e dell’asinello, colloca una triade generazionale di donne (Olga Bercini 10 anni, Valeria Raimondi 33 e Giovanna Caserta 69), pronte a ricomporre il cerchio fatale di un’esistenza destinata a consumarsi senza istruzioni. In uno spazio nudo, altare profanato e culla crudele, tra rintocchi di campana, filastrocche e motivi popolari, a riempire il vuoto di un mistero da affrontare in solitudine. Come la nascita e la rinascita, in un corpo che si sente lo stesso, pur non essendolo più. Fisicità scomode, epidermicamente fastidiose per chi non scorge nella diversità manifesta la traumatica esigenza di ritornare a vivere. Ed è quello che fa “Pinocchio”, portando in scena la vita che è rinata dal coma, grazie alla collaborazione creativa con la Compagnia degli Amici di Luca di Bologna, associazione teatrale di persone risvegliatesi e impegnate sul palcoscenico, per combattere l’isolamento della società. Tre (più un pinocchio muto come aiutante) sul proscenio con il loro vissuto, vestiti della loro pelle cicatrizzata, a rispondere alle domande che la voce fuoricampo di Enrico Castellani dispensa senza badare a falsi pudori o scivolate nel pietismo, ma stuzzicando con ironia un nervo scoperto che si vuole mostrare e far sentire e conoscere.

Alternando siparietti dialogici ad escursioni, pure musicali, nella memoria sognata di un altrove dove tutto sembra possibile, anche il librarsi in un volo senza peso, di un burattinoche ridestandosi, deve imparare ad essere, ancora e sempre, un uomo.

Pinocchio è un pezzo di legno

Pinocchio è la nostra vita

Pinocchio è l’incidente

Pinocchio è una bella storia

Pinocchio è un amico

Pinocchio è Pinocchio

La finzione non è di casa, qui, nel Pinocchio dei Babilonia Teatri. Enrico Castellani e Valeria Raimondi si “ritirano” dietro il banco regia per lasciare il palco a Luca Scotton, nelle vesti del pinocchio macchinista, e ai tre attori della compagnia Gli amici di Luca. Tre attori decisamente particolari, che portano in scena la loro vita, una vita che è cambiata completamente dopo l’esperienza del coma. E lo fanno nella linea sottile divisa tra ironia e drammaticità. Si sorride, si ride e ci si commuove.

Chi è Pinocchio?

Qual è il paese dei Balocchi?

Esiste la fata turchina?

Tre corpi nudi, vestiti solo con calzoncini corti, entrano in scena con tutta la loro fragilità e difficoltà. Tre corpi “offesi”, traballanti, instabili ma fortemente presenti, che si raccontano già così, solo vedendoli, che ci parlano di una realtà che non s’incontra tutti i giorni.

Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli non narrano fiabe ma rispondono alle domande incalzanti della voce fuori campo di Enrico Castellani: nome, cognome, età, altezza, incidente. Vengono interrogati sulla loro vita, di come è cambiata dopo quella notte, ci parlano di nebbia, di muretti comparsi all’improvviso, di famiglie di platani, di moto rovesciate.

In un attimo e la vita cambia completamente. In un attimo e il corpo non è più quello di un tempo. In un attimo e tutto ricomincia da capo, come una seconda rinascita, come a dover rimparare a parlare, camminare, rimanere in equilibrio. In un attimo ci si ritrova in una vita che si deve ricostruire, pezzo per pezzo. E con pazienza bisogna adattarsi a questa nuova esistenza.

Scatta la musica.

Patience dei Guns’n roses scandisce una delle scene più belle, dove i tre immaginano orizzonti ancora da scoprire, alla ricerca della propria fata, della propria libertà, in sella ad una moto, cantando le parole: “…un po’ di pazienza, abbiamo bisogno solo di un po’ di pazienza,tutto quello che chiedo è un po’ di pazienza, solo un po’ di pazienza è tutto quello che ti serve”.

Ieri è il loro oggi.

E’ proprio la parola IERI che introduce un aspetto decisamente più intenso nello spettacolo, il rimpianto, la memoria di qualcosa che è stato e che non c’è più, e la difficoltà di ricominciare a vivere in dei panni che si fatica ad accettare e in una società che marginalizza tutto ciò che non è “normale”.

Nelle note di Yesterday il testo non è più affidato alla voce ma a dei cartelli che corrono in soccorso forse alle parole che non riuscirebbe a farsi sentire.

“Sono il fantasma di quello che ero”/ “L’amore era un gioco facile ieri”/”Ora vorrei che fosse ieri”.

Piccole pillole dell’infanzia entrano in scena con oggetti, giochi che rappresentano, se vogliamo, quello che erano e ciò che hanno lasciato e lentamente Pinocchio smette di essere un burattino e inizia a vivere davvero.

Buio in sala.

Pinocchio è uno spettacolo che crea un enorme empatia col pubblico, è un lavoro che lascia da parte la tecnica attoriale e un copione preciso ed indaga sul vissuto dei protagonisti lasciandoli in scena in tutta la loro verità.

E’ un lavoro che offre al pubblico la possibilità di conoscere l’avventura incredibile di queste tre persone che hanno lottato con forza e tenacia per riappropriarsi del loro corpo e che sono stati in grado di rinascere sotto una nuova luce.

Da vedere!

Tre uomini, tre corpi parzialmente svestiti, senza paura di mostrarsi in tutta la loro goffaggine e imperfezione, tre vite interrotte dal coma che si rivelano portando in scena una realtà che scuote il pubblico con spiazzante autenticità, mordace ironia e cruda sincerità

In Pinocchio i personaggi sono persone che portano in scena se stessi ed il proprio vissuto, segnato da uno strappo, il coma, da ricucire con difficoltà e da accettare per poter ricostruire i pezzi della propria esistenza. Nella semplicità di un palco vuoto, liberato da quinte, scenografie ed elementi di finzione, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli accettano la sfida di mettersi a nudo, incontrare un pubblico di estranei e una società che spesso non si accorge di loro, e ricostruire il proprio passato alla ricerca di un futuro che sarà inevitabilmente diverso attraverso un racconto/intervista condotto sapientemente e con ironia dalla voce fuoricampo di Enrico Castellani: un grillo parlante che offre nuove vedute, la voce della coscienza che scava dentro i ricordi, un conduttore televisivo che detta le regole del gioco, un amico che permette anche le confidenze più intime, un regista che guida i propri attori. Sullo sfondo, Pinocchio (Luca Scotton) – o meglio la sua immagine deformata, evocata da un uomo corpulento con in testa un cappello a punta – funge da pretesto per il racconto, suggerisce metafore, apre a significati universali ed è fisicamente di servizio e assistenza agli attori. E così, il micro-cosmo degli attori si apre verso altri mondi possibili, diventando il mondo di ciascuno di noi e allo stesso tempo il mondo immaginario ma concreto di Pinocchio.

Il paese dei balocchi diventa un luogo in cui si cambia, ci si trasforma, si entra in conflitto tra il bene ed il male, tra chi si è e chi si vorrebbe essere, in cui si cade piangendo a terra con le orecchie da asino e poi ci si rialza di nuovo. La fata Turchina diventa una speranza, una donna, il desiderio di una vita futura, colei in grado di migliorare l’esistenza di ogni uomo. Bastano poche pennellate, movimenti stilizzati a far prendere forma in scena le immagini dell’infanzia legate alla fiaba che si intrecciano ai frammenti di vita dei personaggi e di ciascuno di noi. Così una sedia diventa una moto destinata a cadere a terra, un verso prodotto con le labbra diventa il rumore di un trattore in una giornata di lavoro come tante, un giocattolo si fa immagine di qualcosa di prezioso, di semplice ma importante, legato all’infanzia, al passato e, forse ad un futuro.

Le immagini sono straordinariamente efficaci nella propria essenzialità ed il linguaggio è quello frammentato della realtà che ci circonda: domande “botta e risposta”, urla, risate, lacrime, canzoni che tutti conosciamo e che probabilmente hanno fatto da colonna sonora alle nostre vite, assumono per la prima volta significati nuovi (“improvvisamente non sono l’uomo che ero, c’è un’ombra sopra di me […] ora vorrei che fosse ieri” – Yesterday, The Beatles). Il tentativo di trovare una forma che sia teatrale ma allo stesso tempo autentica viene raggiunto dallo stesso Castellani e da Valeria Raimondi pesando intelligentemente realtà e linguaggio teatrale con la giusta dose di improvvisazione e libertà, mantenendo l’equilibrio perfetto tra comicità e acuta riflessione senza mai scendere nel pietismo. Il pubblico non può dunque non sentirsi toccato, scosso, guardato negli occhi da chi cerca e offre niente di più e niente di meno di un incontro. Che permette di capire o quantomeno di riflettere su cosa accade quando una persona esce dal coma. «Prima c’erano champagne, garçon e adesso niente più champagne, niente più garçon, solo Paolo Facchini, Facchini  Paolo, Paolo Facchini, Facchini Paolo.» Alla fine di tutto resta un’identità da ricollocare, una vita da ricostruire, una persona da far nascere. E allora i fili si spezzano, muoiono le marionette e prende forma una vita nuova. Una rinascita. Un risveglio. Un nuovo inizio.

Al termine dello spettacolo, Visto al Teatro Gentile di Fabriano (An), Gilberto Santini, direttore artistico dell’AMAT (Associazione marchigiana attività teatrali), ha offerto al pubblico la possibilità di incontrare Enrico Castellani che ha parlato dell’incontro di Babilonia Teatri con l’associazione “Gli amici di Luca” di Bologna, specializzata nell’assistenza alle persone con esiti di coma. Nel corso dell’incontro si è dimostrato come il teatro possa rivelarsi un potente strumento di riabilitazione e di ripresa di contatto con la realtà.

La commozione forte, quella che ti stringe un nodo alla gola, viene continuamente trattenuta dall’ironia nel Pinocchio di Babilonia Teatri. Il tono è drammatico e sorridente, come nelle vere favole. Della storia di Collodi rimane in un canto della scena un attore-macchinista col lungo naso posticcio, Luca Scotton, e ci sono tre “burattini”, persone che si muovono con qualche difficoltà, claudicanti, spezzate da un colpo della vita e non perfettamente ricomposte. Pinocchio, il nuovo spettacolo della compagnia veronese impostasi come una delle più originali della nuova scena italiana, è stato prodotto dopo un lungo laboratorio svolto con l’associazione Amici di Luca della Casa dei risvegli Luca De Nigris di Bologna, che si occupa di assistenza durante il coma e della successiva riabilitazione. Lo interpretano tre uomini usciti da quello stato di sospensione tra la morte e la vita, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli, con la regia di Enrico Castellani e Valeria Raimondi. Lo sguardo urticante sulla realtà degli artisti veronesi, di solito espressa con tremendi, frontali blob di parole e pregiudizi della società affluente lanciati a riempire vuoti di esistenza, in questo Pinocchio, come già si avvertiva nel precedente The End, si trasforma in ricerca di umana comprensione grazie alla scoperta del dolore attraverso l’abbraccio con persone che hanno lambito la morte.

Entrano uno a uno, barcollando come marionette, con i loro corpi offesi, in bermuda o boxer, gli attori. Non raccontano fiabe: dichiarano nome, cognome, età, interrogati, stuzzicati in modo leggero e divertito dalla voce del regista, proveniente dal fondo della sala, come un autore che voglia rivelare i propri personaggi giocando con al loro realtà e le loro maschere. Sono andati in pensione giovanissimi, ma non sono falsi invalidi.

Rievocano di come un platano o la nebbia abbia attraversato loro la strada, di come siano stati trovati riversi contro un cassonetto, gli incidenti che li hanno portati in coma, sospesi nel buio come Pinocchio al ramo della grande quercia, come Pinocchio nel ventre del Pescecane in un antro oscuro in fondo al quale si intravedeva appena una fievole luce…

Corpi trasformati in altri corpi, estranei, come Pinocchio pupazzo di legno, come Pinocchio ciuchino, risvegliatisi dopo tanto tempo, in modo lento.

Raccontano la malattia senza pietismi, ridendoci sopra, calandola, all’improvviso, nella storia del burattino che vuole diventare qualcos’altro, continuamente irrigidito dal suo corpo di legno e dall’indole indocile.

Quando si muovono, con i loro gesti impacciati, feriti, sembra di essere nel teatro delle marionette. Fanno esercizi, cercano di rendere morbide le articolazioni che il trauma ha irrigidito. Pare un balletto meccanico. Ma in questo mondo slogato il sogno non muore, come quando Pinocchio cade nel circo e gli sembra di vedere la Fata che sorride. “Ce l’avete un desiderio? – chiede la voce di Castellani – una fata turchina?”. E loro ce l’hanno, molto comune: la vorrebbero mora-occhiazzurri-single, italiana-dinamica-passionale, e così via. Sono fantasie di vita normale (la parola che più ritorna) quelle che emergono in modo struggente da questa realtà virata in nera favola. Fate intraviste in discoteca o in un giro in moto, un caracollare di corpi sulle sedie, unici arredi di scena, su strade dove ci si può perdere in una nebbia fitta.

Prima c’era la vita normale – ancora lei – il ballo, i bar, gli amici. Niente di strabiliante. Qualcuno lo racconta, ora, quel quotidiano passato come il Paese dei Balocchi. C’erano gatti, volpi, grilli parlanti, Lucignoli. La cosa difficile da ricostruire è la memoria di quel prima, la vita oltre quella nebbia, oltre la ferita, con faticati movimenti, con un parlare straziato che diventa un raglio che si trasforma in rantolo. Un pianto per la forma persa, dispersa.

“Ieri” è la parola che fa scattare il rimpianto, la memoria, lo strazio, in una intensa scena muta sotto la musica di Yesterday, con il testo affidato a cartelli, perché la voce non riesce a pronunciarlo. “Mi sembra di essere un fantasma, dopo due mesi di coma… Il fantasma di ciò che ero”. Si espongono ora con parole dirette, scabre, queste persone ferite, trasformate in ottimi attori che recitano, rievocano se stessi, per tornare a vivere.

Abbracciano vecchi giochi, oggetti cari d’infanzia, come la pelle mutata. Mentre legano uno di loro, faticosamente, con l’aiuto del Pinocchio macchinista, a una corda. Salirà in cielo, come un teatrale angelo barocco, per provare a spiccare un volo di pochi metri, controllato, guidato, impudente come ogni immaginosa finzione di palcoscenico.

È uno spettacolo ruvido e delicato, che racconta il dolore esibendo, senza violenza, chi lo ha provato: per curare, per curarci ma non rassicurarci. Cerca nella favola, delicata e crudele, usata per bagliori, per associazioni e contrasti, la chiave, la sponda per pronunciare l’inesprimibile. Per mostrare, oltre l’handicap, oltre ogni tipo di legnosità, la voglia di vivere, di volare. Con la leggerezza dell’infanzia e con un lancinante senso di perdita. Con faticata curiosità. Per ricominciare, da come si è. Dal lato più opaco della realtà.

Tre uomini normali, risvegliati da un coma di diversi anni, smettono di essere pezzi di legno e tornano a “volare” grazie alla magia teatrale della compagnia Babilonia Teatri. Tra provocazione e surrealismo, la formazione veneta si conferma una delle realtà più interessanti del nostro teatro contemporaneo.

Il tema è spinoso: è lecito mettere in scena persone che hanno sofferto? È strumentale utilizzarli come attori? E’ legittimo riderne se, in certi momenti, le battute lo richiedono? È  corretto emozionarsi se in altri momenti le riflessioni si fanno impietose? O proprio così si rischia di cadere nel pietismo?

Queste le riflessioni che mi tormentano quando osservo la Prima Nazionale al Teatro Storchi di Modena dello spiazzante lavoro dei Babilonia Teatri, una delle più interessanti e vitali formazioni del nuovo teatro italiano. La giovane compagnia veneta che continua a stupire per l’originalità delle sue produzioni e delle modalità espressive: molto distante dagli standard soporiferi che i maggiori palcoscenici continuano a propinarci, convinti che il pubblico degli abbonati voglia sempre la stessa sbobba paratelevisiva, dove tutt’alpiù si osa mostrare l’autoreferenzialità del Lavia di turno.

Questo Pinocchio che ha scelto di diventare di nuovo uomo a Modena, in una delle piazze più importanti del nostro teatro, è di una squassante dirompenza. La regia con voce fuori campo di Enrico Castellani intervista con aria disinvolta, in apparenza senza un preciso copione, tre uomini modenesi feriti durante un incidente e finiti in un coma profondo, durato diversi anni: grazie alla Casa dei Risvegli hanno ripreso a vivere, con una fatica e un dolore che possiamo solo sforzarci di immaginare.

Non sono dei personaggi straordinari, non hanno doti particolari: non sono raffinati intellettuali, nè filosofi. Sono persone normali, che amavano e amano tutt’ora andare in discoteca, nel “paese dei balocchi”, alla ricerca della loro fata turchina. Che a Foucalt o Contini ma Salgari preferivano leggere il commissario Montalbano e che piuttosto di ascoltare Pierre Boulez o Stockausen si sintonizzano sui turpiloqui radiofonici dello Zoo di 105. Se leggono Kant, come il giovane ex motociclista ha fatto, giudicano la sua Critica alla Ragion Pura “abbastanza carina”, mica “palingenetica”.

Questi tre (Paolo Facchini, Lugi Ferrarini, Riccardo Sielli i loro nomi) una volta resuscitati dal coma profondo si sentono reali? Realizzati? Regolari? (“solo quando vado in bagno” dice quello con la battuta sempre pronta). Si sentono riabilitati? No. Sono semplicemente persone che hanno voglia di vivere, cui non pare vero di ritornare in scena, anche se con un corpo ferito che zoppica un po’.Esprimono il desiderio di confondersi nel banale rumore di fondo delle nostre vite, non così tanto più in ordine delle loro. Si autodefiniscono persone buone simpatiche e un po’ stupidotte. Questi magnifici tre che hanno percepito realmente e a lungo cosa vuol dire essere dei pezzi di legno, sono ora in grado di tirarsi in piedi, sollevati da quegli invisibili fili da marionetta che li sorreggono, e che puntellano anche le nostre altrettanto fragili esistenze, che ci allineano agli altri e che ci rendono normali. I protagonisti di questo strepitoso trio della normalità riconquistata e che hanno gioiosamente abbandonato a terra il burattino che era in loro, si percepiscono in realtà come se fossero i fantasmi di ciò che erano.

Quando si sono risvegliati si sentivano delle scarpe vecchie uscite dal cassonetto, ora chiedono caparbiamente indietro “una vita spericolata”, come cantano seduti a giocare con i loro giocattoli, “una vita piena di guai”. Una vita come quella corda con cui uno di loro viene issato, dal Luca Scotton, “burattinaio” storico della compagnia. Si librano per aria, sopra al palcoscenico, assaporano la leggerezza dell’esistenza, come degli angioletti rinascimentali. Proprio loro che il peso del corpo lo sentono, eccome. Lasciando stupefatti, prima di tutto noi Geppetti, di come siano ancora in grado di nasconderci il loro passato di legno per fare la parte dei ragazzini per bene. Ma è solo un attimo, perché tutti e tre, seduti di fronte a noi, allineati come se stessero aspettando di farsi fare una foto segnaletica, dopo averci mostrato una serie di cartelli con cui ci ricordano il loro ( e il nostro) ieri, crolleranno di nuovo in terra senza quell’effimero soffio vitale che per un istante li ha ripercorsi, ricordando a tutti noi come anche il nostro “soffio” non sia poi così eterno e perfetto. Tutti quanti ogni tanto andiamo in tilt, e abbiamo bisogno di spegnerci e essere riavviati.

Sembra esserci un’urgenza forte in quest’epoca disgraziata e in questa Italia malandata che possiamo provare a definire semplicemente nei termini di una ricerca di senso. E siccome il senso è la forma umana di elaborazione dell’esperienza, allora quello che un certo teatro sente il bisogno di portare alla luce è un nuovo umanesimo, o ancora, una sociologia dell’umano.

Il che non vuol dire mettere l’uomo al centro dell’universo, non si tratta infatti di potenziare il narcisismo antropocentrico che ci portiamo dietro dal Rinascimento quanto, piuttosto, di riconoscere la vera matrice dell’essere umani nell’unica e definitiva differenza che conta: quella fra vita e non vita.

Il Pinocchio di Babilonia Teatri e dell’associazione Gli amici di Luca – al Teatro Storchi di Modena, visto domenica 9 dicembre 2012 – ci parla di questo attraverso tre uomini che hanno vissuto l’esperienza del coma e che perciò hanno occupato per un po’ la zona liminale che sta fra la vita e la non vita.

Nudi su un palco spoglio, sorvegliati da un Pinocchio – Luca Scotton – sempre in scena rispondono alle domande provenienti dalla regia, cioè da Enrico Castellani. Un racconto a tre voci, un po’ biografico e personale, ironico e triste che si costruisce gradatamente ma inesorabilmente in chiave drammaturgica. I tre uomini, di cui impariamo i nomi (Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli), sono chiamati a compiere delle azioni sullo sfondo delle canzoni che ci riportano allo spirito pop di Babilonia – dall’inizio con il Pinocchio di Jonny Dorelli, ai Guns n’ Roses e Vasco Rossi con Vita spericolata, Yesterday dei Beatles fino ad Allevi – e a dire delle cose su di sé inframmezzate dalla lettura delle parti del testo di Collodi e con l’ausilio delle metafore che questo stesso testo fornisce.

E così capiamo che il paese dei balocchi può essere la vita che facevamo e che dopo un incidente gravissimo non possiamo fare più e che attraverso la figura di Pinocchio e la sua trasformazione – il burattino che muore per ritornare in vita nel corpo di un bambino – queste persone, che non sono più quello che erano, rivendicano la loro datità corporea, fatta di carne e ossa, e perciò il loro essere vita cioè bios.

Se ancora le nostre riflessioni – soprattutto di tipo mediologiche e attente al ruolo delle tecnologie – risentono delle suggestioni del post-umano come dato culturale adeguato al superamento delle categorie concettuali del moderno, questo Pinocchio – individuo postumano a ben vedere – fa il giro al contrario e ritorna all’umano. In questo mi pare davvero che si ritrovi il “teatro necessario” di Babilonia Teatri.

Questa volta Pinocchio non racconta bugie, ci racconta storie vere, che tornano alla luce dopo molto tempo passato al buio.

Sono le storie vere con cui Babilonia Teatri mostra la realtà sotto una forte luce bianca, che denuda gli intenti e sospende il tempo.

Il progetto Pinocchio nasce dall’incontro tra la pluripremiata compagnia veneta e Gli Amici di Luca, associazione onlus di volontariato e compagnia teatrale composta da ragazzi con esiti di coma; attori e volontari che si propongono l’integrazione sociale e la riabilitazione delle persone risvegliatesi da periodi di coma, contribuendo alla sensibilizzazione della comunità al problema. Il progetto laboratoriale inizia alla fine del 2011 e ha presentato finora due studi, proposti al pubblico quest’estate a Bassano del Grappa nell’ambito del festival B.Motion e a Bologna in ottobre, presso la Casa dei Risvegli, un centro innovativo di riabilitazione e ricerca. Lo spettacolo ha visto ora il debutto in anteprima al Teatro al Parco di Parma, nell’ambito del festival Zona Franca.

Babilonia Teatri si incammina così sulle tracce di Pinocchio, la fiaba italiana per antonomasia, visceralmente radicata nel nostro immaginario collettivo, dove un burattino che si risveglia bambino meglio non poteva impersonare un’altra fiaba altrettanto suggestiva e commovente, ma ben più reale e tangibile, il risveglio di una persona da uno stato di coma.

Accantonati per una sera l’irruenza del ritmo delle parole cui ci hanno abituati e gli impetuosi anatemi contro le ipocrisie della società attuale, cifra stilistica che contrassegna tutta la loro carriera e con cui hanno intelligentemente nutrito il pubblico durante questi anni, Valeria Raimondi ed Enrico Castellani inscenano una sorta di dinamico talk show dove protagonisti sono tre pazienti con alle spalle l’esperienza di un prolungato stato di coma: Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli.

Tramite l’espediente di un’intervista semi improvvisata, condotta dalla voce fuori campo di Enrico Castellani, invisibile Mangiafuoco che manovra i suoi burattini-attori, i tre interpreti si cimentano in uno stralunato dialogo costantemente in bilico tra paradosso e ricordo intimistico, mai sfacciatamente irriguardoso, dove rivivono le personali tragiche esperienze di vita. E dove il racconto di Collodi rimane sullo sfondo e si riduce a pretesto per raccontare se stessi, nella propria umanità ferita da drammatiche vicende ma inviolata nella sua risorsa di coraggiosa testimonianza di un’esistenza temporaneamente sospesa.

Si parte quindi per un viaggio furibondo alla ricerca di una fata né turchina né tinta ma bionda naturale, di una visita in moto al paese dei balocchi per scoprire che non è un luogo fisico ma è dentro ad ognuno di noi, per ritornare alla vita reale dopo aver dimorato nella nera pancia della balena.

Si illuminano allora schegge di realtà che divengono specchio di umanità concrete, che frantumano la finzione teatrale in estreme esperienze drammatiche di incidenti e disgrazie, ma anche di estrema volontà di riscatto e guarigione.

Un’affettuosa commistione tra verità e finzione teatrale affrontata con lucido sguardo indagatore ma che crea e lascia spazio al riso e all’autoironia, senza mai comunque sacrificare sensibilità e buon gusto, esaltando spontaneità e naturali doti istrioniche dei tre interpreti, evitando passaggi troppo forzati o artificiosi. Una prova molto audace questa di Babilonia Teatri che, pur nei limiti pratici che inevitabilmente emergono negli esiti laboratoriali di questo genere, riesce abilmente a padroneggiare situazioni e dinamiche emotivamente complesse, veicolandole in una poetica di sincero e partecipe divertimento.

Un buon tentativo, inoltre, per allargarsi verso nuovi linguaggi e incontri creativi, senza tradire i propri navigati codici espressivi.

Chi è Pinocchio se non il burattino di legno per eccellenza nell’immaginario popolare? La sua cornice ideale non può che essere il teatro, l’aveva capito anche il furbo Mangiafuoco: Pinocchio era la sua gallina dalle uova d’oro. Il mero fine di lucro del burattinaio inventato da Collodi si scontra invece con una scelta diversa operata da Babilonia teatri, cioè rendere la scena mezzo di comunicazione utile alla comprensione della realtà, rivolgendosi a un pubblico popolare che sia in grado di leggere ciò che vede, anche se a livelli diversi. Enrico Castellani e Valeria Raimondi non muovono i fili di marionette per attrarre la platea ma lavorano insieme a tre attori dell’associazione “Gli Amici di Luca”, non-attori come ama definirli Castellani, volontari con esiti di coma che si dedicano al teatro sfruttandone le qualità terapeutiche. Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli di Pinocchio conservano rigidità fisiche e nervose, conseguenza nefasta di un attimo beffardo del loro passato nel quale hanno fatto i conti con il buio dello stato di incoscienza.

Le loro storie s’intrecciano con quelle del burattino più famoso grazie alle regia di Castellani.

Il corridoio del reparto Casa dei Risvegli dell’ospedale Bellaria si fa scena, e accoglie uno alla volta i corpi seminudi dei protagonisti. Il loro incedere è lento, faticoso, i loro movimenti sono farraginosi, trascinano con fatica il proprio vissuto e lo offrono al pubblico.

Si dispongono uno vicino all’altro, in orizzontale, con lo sguardo rivolto al piano superiore del reparto, ove staziona il regista Castellani. Il pubblico non lo vede ma ascolta la sua voce che comunica con i tre protagonisti. Una delle immagini possibili che lo spettatore contempla è quella di tre uomini scampati alla morte, in attesa di sapere da qualcuno o qualcosa che sovrintende l’umana comprensione quando e come sarà possibile tornare alla vita. Il regista chiede loro di presentarsi, scandisce i loro cognomi ogni qualvolta li chiama in causa, li invita a raccontare perché somiglino più a maschere che a uomini e, come da copione, essi obbediscono, sono abituati ormai ai perimetri, ai paletti, ai “non posso”, “non posso più”.

Ferrarini, a differenza degli altri, indossa delle bretelle di sicurezza simili a quelle utilizzate dagli alpinisti. È posizionato nel mezzo tra Facchini e Sielli, dei tre è sicuramente quello che ha riportato le disabilità maggiori, ma al contempo è anche quello che più degli altri mostra il proprio desiderio di libertà, di movimento, è colui che non resiste alla rigidità imposta, che odia il copione di Castellani, spesso volutamente non lo rispetta, si serve dell’ironia per ribaltarlo e andare a braccio, mostra la dinamicità che la sua mente mantiene a dispetto del corpo. Castellani, da buon padre (eterno) dello spettacolo, detta i sentieri entro i quali muoversi ma allo stesso tempo offre diverse opportunità agli attori di divagare, di dare sfogo alla propria immaginazione, con forme nuove, personali, non perdendo mai di vista quel Pinocchio che sta sullo sfondo, seduto alla loro sinistra, interpretato da Luca Scotton. Tutto deve necessariamente tornare al suo lungo naso, e alla sua favola dal lieto fine, orizzonte difficile da vedere che pur si cerca di mettere a fuoco, come quando Sielli racconta della lucina in mezzo al buio, unico e indelebile ricordo dei giorni passati in sospeso tra la vita e la morte, tra l’inizio e la fine. Il risveglio si è trasformato in un principio di vita nuova, Ferrarini lo descrive come una macchina nera, priva di qualunque accessorio, una carrozzeria vuota alla quale aggiungere giorno per giorno i pezzi mancanti. Prima di tutto gli specchietti retrovisori, per guardarsi indietro e capire se alle spalle del dramma esistesse un paese dei balocchi che il fato ha deciso di interrompere bruscamente. In fondo è in quel non-luogo che Pinocchio ha smarrito il grillo parlante e, trasformandosi in asino, ha iniziato a fare i conti con le responsabilità della vita, con la maschera quotidiana che spesso pesa e limita i movimenti più naturali. La fata turchina ha poi premiato il burattino trasformandolo in bambino vero. Facchini ha già una fata ma non gli dispiacerebbe averne due, Sielli la rincorre da una vita, lo faceva in moto prima del coma, lo fa oggi con la riabilitazione, Ferrarini la vuole bionda, buona e gentile.

Diverse musiche accompagnano i loro racconti, i loro desideri, tra queste c’è Patience dei Guns N’ Roses, ad indicare la via della speranza non solo per quel corpo che non è più lo stesso, affaticato e lento nel suo danzare, nel suo lottare, ma anche per la mente, più libera di contraddire il copione, più autonoma nell’assecondare la fantasia. Una ricerca determinata dell’arcobaleno: se Patience non avrà tutti i colori, l’importante sarà comunque tentare di non guardarlo in bianco e nero, come quando la luce del sonno di Sielli era così lontana da perdersi nel buio della fine.

La danza scatenata che anima il finale è un inno al ritmo, alla lotta, alla scoperta: Scotton aggancia le bretelle di Ferrarini a una fune per realizzare uno dei tanti sogni del protagonista, volare senza ali, prova a tirarlo su proprio come si farebbe con un burattino, ma non ci riesce. Ferrarini non è deluso dal fallimento del corpo, è al contrario felice del tentativo della mente, quella sì in grado di raggiungere qualunque latitudine senza bisogno di bretelle, senza bisogno delle ali, senza bisogno dell’odiato copione.

Per fare teatro con i pazienti con esiti di coma della Casa dei Risvegli gli artisti di Babilonia Teatro hanno rotto l’esasperata frontalità che legava tutti i loro lavori (almeno di tutti quelli che ha visto chi scrive) e inventato per il loro Pinocchio uno schema drammaturgico triangolare di forza almeno pari.

È come se la realtà, di cui sono andati in cerca con con la foga disperata che dava ritmo e energia ai loro lavori, se la siano trovati finalmente in mano: ora sembra – sembra – che tutto quello che hanno fatto prima fosse una strada per arrivare qui.

Enrico Castellani, autore con Valeria Raimondi, è l’invisibile Mangiafuoco che dall’alto, non visto, osserva e manovra i suoi burattini. Questi però burattini non sono e mandano all’aria ogni progetto di messinscena in un dialogo divertito e irriverente in cui ogni gesto e ogni parola è negoziato tra l’autore fuori scena – fedele all’intenzione di mettere in scena Pinocchio – e i tre interpreti con le loro incontenibili storie di sfiga estrema, di altrettanto estreme volontà, di riscatto necessariamente rimasto a mezzo. Sono Facchini, borghese e benpensante (adesso, dopo l’incidente), Ferrarini, ingestibile autarchico caustico, Sielli, il più bolognese, vitale e bonario.

E Pinocchio sparisce? No, c’è, ma per frammenti, per relitti, ed è una lettura indovinatissima, perché per discontinui frammenti si scoprono pure i racconti di vita dei tre protagonisti, in un agghiacciante gioco di rimandi (la metonimia prevale sulla metafora) che appena si avverte sotto il ritmo incalzante delle azioni e la comicità pervasiva delle interazioni. L’abbiamo visto alla Casa dei Risvegli, in un corridoio d’ospedale con le macchinette dell’acqua e del caffè a fare da quinte: ora andrà in sala (allo Storchi di Modena l’8 dicembre, per esempio) e scommettiamo che avrà la forza di imprimersi sullo spazio dei teatri.

Bologna, Casa dei Risvegli, 8 ottobre

Promette decisamente bene lo “studio” su Pinocchio del gruppo veneto, che ha collaborato con l’associazione Gli Amici di Luca, specializzata nell’assistere i reduci dal coma.

Pur avendo per ora debuttato solo in forma di studio, il Pinocchio che i Babilonia Teatri hanno realizzato con “Gli Amici di Luca”, una compagnia teatrale formata da persone uscite dal coma, già si prefigura come uno degli avvenimenti-clou della nuova stagione che sta per iniziare. Lo spettacolo, presentato nel bel programma del festival “B.motion” di Bassano del Grappa, costituisce un alto risultato artistico del gruppo veronese, e un suo personalissimo contributo alle tante esperienze di ricerca che si vanno attualmente conducendo nel variegato panorama del disagio: mai, credo, si era visto finora sulle scene italiane un approccio al dolore e alla malattia così lieve, così privo di retorica, e al tempo stesso così carico di sottili valenze drammatiche.

A dare una forte impronta al progetto è la decisiva scelta di rinunciare a qualunque tipo di artificio rappresentativo. Il Pinocchio dei Babilonia scavalca in partenza quell’idea di finzione, di interpretazione a posteriori – sia essa basata su un testo preesistente, o scritto per l’occasione – che costituisce spesso il punto debole di simili operazioni, rischiando di conferire loro un che di innaturale e di forzato. Alla messinscena di una trama, Valeria Raimondi ed Enrico Castellani preferiscono sostituire delle schegge di realtà, dei frammenti di vita presi così come sono, nella loro tenera e feroce immediatezza. Anziché trasformare i tre partecipanti in personaggi, li inducono a parlare direttamente di sé, a svelarsi, a raccontare la propria condizione.

Quest’acre commistione di verità e di sottile invenzione teatrale si coglie nitidamente fin dall’entrata di costoro, che non arrivano dalle quinte ma dal fondo della sala, camminando con andatura più o meno claudicante, incerti nei passi ma non nelle intenzioni: sono tutti e tre scalzi e a torso nudo, due in bermuda, l’altro in mutande, corpi esposti senza pudori agli sguardi degli spettatori.

Si arrampicano faticosamente sul palco, si dispongono l’uno a fianco dell’altro sotto le luci crude che li investono, osservati in silenzio da un Pinocchio obeso – ugualmente seminudo – seduto da un lato. Questo offrirsi alla platea senza filtri e mediazioni ha qualcosa di straziante e insieme di stranamente liberatorio, come a sgombrare subito il campo da imbarazzi o curiosità morbose.

Lo stesso tono di dichiarata franchezza impronta il dialogo tra loro e un invisibile conduttore. Con una trovata efficacissima, la formula adottata è infatti quella di una stralunata intervista, nello stile di un paradossale talk-show televisivo: la voce fuori campo di Castellani, ironica, affettuosamente scherzosa, li interroga, li sollecita, pone domande irriguardose, senza timore di offenderli o di violarne l’intimità ferita: si informa sul lavoro che facevano, sui libri letti, sui film preferiti, ma anche sui ricordi che conservano di quel periodo di esistenza sospesa, sulle circostanze nelle quali sono rimasti menomati, sulla pensione che percepiscono, persino sui loro desideri sessuali. E i tre rispondono con dizione stentata, con gesti incerti ma con battute spesso folgoranti. Sono se stessi, nel bene e nel male, nei loro limiti e nelle loro risorse umane: e lo spettacolo pone intelligentemente in evidenza – senza pietismo, ma con autentica, profonda pietas– proprio questo loro stare in bilico tra una precaria “normalità” e una sofferenza che forse non potrà mai riscattarsi. L’immagine che ne esce è spigliata, sorprendentemente accattivante, a suo modo persino divertente – questa l’idea davvero originale – ma lascia intravedere un vago senso di tragedia che l’attraversa e le si addensa intorno: i tre amabili sopravvissuti sono lontani e insieme vicinissimi rispetto all’andamento delle nostre giornate, lo scarto del destino che si è abbattuto su di loro ci appare inaudito, ma potrebbe in qualunque momento colpire anche noi.

Ingegnoso, in questo Pinocchio, appare anche il ricorso al testo-pretesto di Collodi, che non c’entra nulla, non viene mai utilizzato esplicitamente, ma resta sempre allusivamente presente sullo sfondo: Pinocchio è la diversità, è l’ambigua creatura né fantoccio di legno né essere vivente a pieno titolo. È la continua metamorfosi, il passaggio dalla natura di burattino a quella di ciuco e poi di bambino in carne e ossa. È il risveglio, la ripresa di coscienza dopo il passaggio attraverso un insondabile cambiamento di identità. E il Paese dei Balocchi, con aguzza intuizione, è la discoteca, lo stordimento dopo il quale uno di loro – o forse tutti – è andato a schiantarsi con la sua auto contro un ostacolo che «non doveva esserci».

Certo, bisognerà vedere come il lavoro si evolverà nella sua versione definitiva: ma fin da ora si può dire che, dopo il pur lacerante The End, esso segna un fondamentale momento di crescita per Babilonia Teatri. È un tentativo, riuscitissimo, di uscire da uno schema collaudato, di aprirsi ad altri incontri, ad altri linguaggi, ad altre suggestioni, pur mantenendo una sostanziale fedeltà al proprio mondo espressivo. Colpisce, soprattutto, la sicurezza, la padronanza – nonché la sensibilità, direi quasi tattile – con cui i due autori-registi tengono sempre sotto controllo una situazione che potrebbe facilmente sfuggire di mano, indirizzandola a trasmettere esattamente le sensazioni previste. È una prova di maturità straordinaria, di cui pochi, oggi, sarebbero stati capaci.

Operaestate Festival continua a confermarsi quale rassegna d’avanguardia e occasione certa per ritrovare o scoprire le realtà più brillanti del teatro di ricerca. Tra queste Babilonia Teatri è ormai un ospite fisso, presente per il sesto anno consecutivo. Il gruppo teatrale pop, rock, punk veronese è tra gli ultimi a esibirsi nella sezione “B.Motion teatro” con “Pinocchio” un lavoro ancor più che inedito. Si tratta infatti di un Primo Studio della prossima produzione che debutterà a Bologna il 7 ottobre 2012 alla 14° edizione della Giornata nazionale dei Risvegli per la ricerca sul coma.

Questo work in progress nasce dall’incontro tra gli attori di Babilonia Teatri e la compagnia teatrale “Gli amici di Luca”, associazione di volontariato onlus costituitasi nel 1997 per trovare le cure necessarie a risvegliare Luca, ragazzo bolognese di 15 anni, in coma per 240 giorni e scomparso nel 1998. Da questa vicenda nasce la “Casa dei Risvegli” a lui dedicata: centro innovativo di riabilitazione e ricerca inaugurato il 7 ottobre 2004 a Bologna ha trovato ne “Gli amici di Luca” una collaborazione fondamentale.

All’interno di questa struttura le attività teatrali sono parte di un corso terapeutico per persone che dal coma, diversamente da Luca, si sono risvegliate. Per loro il teatro è un modo di tornare alla vita e così, con loro, la vita ritorna al teatro. Questo è l’ingrediente essenziale di “Pinocchio”: una recitazione autentica, schietta e umana che il 30 agosto a Bassano è affidata a Ferrarini, Sielli e Facchini. Interrogati dalla voce fuori campo di Enrico Castellani raccontano di sé e, senza soluzione di continuità, si ritrovano dentro l’intramontabile fiaba di Collodi simboleggiata da un attore dal lungo naso posticcio presente in scena già da prima dell’inizio dello spettacolo. Il punto di non ritorno in cui i tre protagonisti vengono completamente risucchiati nella fiaba è il viaggio nel mondo dei balocchi. Proprio qui l’interpretazione arriva al massimo della sua espressività vocale e corporea, un’espressività resa ancora più dirompente dalla consapevolezza che a “indossarla” è qualcuno la cui vita è stata per un momento completamente sospesa.

Irruenti, imprecanti, violenti, i Babilonia Teatri sono soliti sbattere in faccia allo spettatore l’indignazione per il nostro tempo. Ma questa volta Enrico Castellani e Valeria Raimondi non raccontano la realtà, la trascinano sul palco. Sì, perché “Pinocchio”, presentato in anteprima a Bassano del Grappa nell’ambito di B.Motion – costola di Operaestate dedicata ai linguaggi contemporanei – non è interpretato dall’affiatatissimo duo veneto. A invadere la scena sono quattro attori dell’Associazione Gli Amici di Luca, persone con esiti di coma che stanno cercando di riscrivere la propria storia. Sulle note di “Carissimo Pinocchio”, Ferrarini, Facchini e Sielli raggiungono sul palco un burattino dalle fattezze umane, con un lungo naso di carta, che per tutta la durata della performance (un assaggio del nuovo progetto) osserva, ascolta, guarda il pubblico, senza mai parlare. Ritratto di un uomo che ha abbandonando la vita di legno per risvegliarsi in quella di carne.

Intervistati, interrogati, provocati dalla voce fuoricampo di Enrico Castellani, un ironico Grillo Parlante, i tre attori svelano, senza pudore, le proprie fisicità segnate dal coma, e rivelano schegge della vecchia esistenza e speranze della nuova. Si raccontano con leggerezza Ferrarini, Facchini e Sielli, improvvisando, cambiando le battute, instaurando un rapporto di complicità con il pubblico, che non li osserva pietosamente ma ride con loro e partecipa delle loro storie.

Non hanno dormito nella pancia della balena, non si sono trasformati in un asino, ma hanno vissuto in sospensione, resettato i ricordi, perso il lavoro, compromesso i rapporti amorosi. Sono usciti bruscamente dalla fiaba, hanno abbandonato il Paese dei Balocchi – senza, però, smettere di desiderarlo – per camminare coraggiosamente in un mondo che li respinge, che non aspetta il passo claudicante, che non comprende le parole uscite da bocche imperfette.

Anche se non entrano in scena, con tutta la loro forza espressiva, anche se le modalità di interpretazione sono modificate, si legge, sotto il copione abbozzato e le scene da definire, l’indagine sulla realtà, cruda, spietata, che è propria dei Babilonia. Vedremo il 7 ottobre, data del debutto bolognese oltre che della tredicesima Giornata dei Risvegli per la ricerca sul coma, l’evoluzione della storia di Collodi, eterna metafora della vita.