THE BEST OF

The best of racconta l’Italia di oggi vista attraverso i nostri occhi. È un affresco dei nostri tempi raccontato con cinismo e con affetto insieme.
Racconta i nostri tic e le nostre contraddizioni. La nostra paura di farci i conti che tante volte ci rende così tragici e così comici.

The best of è una compilation.
La compilation dei nostri spettacoli. Del nostro lavoro. Del nostro teatro.

The best of condensa ed accumula tre anni di lavoro. Di ricerca.
Mostra ed esplicita la nostra poetica e i temi della nostra indagine nel loro evolversi: dal punto di partenza a quello di arrivo.

Accostare, incastrare, sovrapporre gli spettacoli che fino ad ora abbiamo creato per noi significa portare alle estreme conseguenze la lingua che abbiamo creato e intorno alla quale ci siamo interrogati. Significa dare piena dignità alle nostre idee.

Se è vero che i nostri spettacoli sono dei blob teatrali allora è possibile inserirli in un disegno più ampio per dare vita a un blob più saturo, più denso, più appiccicoso.

Underwork, made in italy, Pornobboy sono espressione di un percorso, che è andato affinandosi e affilandosi. Dove i temi e le forme traslano e si modificano passando dall’uno all’altro. Nel mezzo ci stanno le nostre contraddizioni e le nostre prese di coscienza. Ci sta il divertimento e ci sta la rabbia. La voglia di giocare e quella di denunciare.

In tutti sempre ci siamo noi. I nostri panni sporchi. A cui siamo tanto affezionati e che non laviamo mai. Perchè hanno quell’odore che conosciamo così bene e che anche se non è esattamente quello del bucato ci fa sentire a casa.

CREDITI

di Valeria Raimondi e Enrico Castellani
con Valeria Raimondi, Enrico Castellani, Luca Scotton
scene Babilonia Teatri/Gianni Volpe
luci e audio Babilonia Teatri/Luca Scotton
costumi Babilonia Teatri/Franca Piccoli
organizzazione Alice Castellani
coproduzione Babilonia Teatri, Festival delle Colline Torinesi
con il sostegno di Viva Opera Circus
produzione 2010

“C’era qualcosa insieme di affascinate e di repellente in quello stile frontale, diretto, violento, volgare. Tanto, che dopo questo giudizio, non mi sono mai perso uno spettacolo della compagnia veronese. Tutti simili, con una cifra non casuale, che rappresentava un modo sofferto, estremo di cercare una lingua teatrale per analizzare il disastro che ci circonda.”

Massimo Marino

RASSEGNA STAMPA

Il titolo,The best of, non è che una promessa commerciale,come i cd dei cantanti famosi. Ma nessun gruppo teatrale aveva mai compiuto un’operazione simile a quella di Babilonia Teatri. Mi ero imbattuto in Babilonia all’altezza di Made in Italy. Gli altri due spettacoli da cui attinge The best of sono Underwork e Pornobboy. Ho detto attinge, ma è giusto specificare che ci troviamo d fronte ad un’operazione di montaggio. Tra i testi corre un comun denominatore linguistico, ovvero drammaturgico, che è il punto di forza di Babilonia. A volte all’uscita dello spettacolo, è bello ascoltare (un po’ di nascosto) le opinioni degli altri. Qualcuno era infastidito, se non indispettito. Diceva: questo spettacolo è un frullatore, tutto è uguale a tutto. E un altro: non è teatro gli attori stanno li impalati, urlano in coro le loro litanie e tutti i salmi finiscono in gloria. Mi permetto di dissentire. Per essere teatro, lo è e come.un qualsiasi monologo non lo sarebbe di più, senza contare che Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Ilaria Dalle Donne si danno il cambio, usano più di un registro, sono arrabbiati, sono spiritosi, ironici, cattivi. Con loro c’è Luca Scotton, vengono da Verona, e costituiscono un gruppo di ultima generazione tra i più originali. In che senso? Provo ad obbiettare a quello spettatore che definiva litanie i testi di Babilonia. Sì, la forma più o meno è quella, lunghi elenchi, versi spesso di una sola parola, non si tratta neppure più di versi. Il linguaggio vi appare frantumato, eccentrico e birichino fino alla provocazione. Esso è costituito da ripetizioni ossessive, da anafore martellanti, da interruzioni brusche di un sistema semantico nel quale se ne introduce uno del tutto diverso. Infine da accostamenti di tipo surrealista, che sfociano quasi sempre nel registro comico o paradossale. Ciò che rende la litania diversa da una lusinghiera e facile verbalità, o musicalità, è quanto in essa viene detto, il contenuto della litania veicolato. Si tratta sempre di un contenuto aggressivo, e tanto più aggressivo quanto più travestito con costumi infantili, o semplicistici: come rivelano le stesse scenografie: nessuna scenografia per Underwork, tubi colorati di tipo natalizio per Made in Italy, manifesti tutti uguali che annunciano Pornobboy. In un simile quadro si scatena la furia mimetica e distruttiva di Babilonia Teatri. Nel primo pezzo il tema è il lavoro: «precari non ce n’è» viene ironicamente detto, e subito dopo, «cercare un lavoro è un lavoro». Poi ascoltiamo una tirata sui cinesi, con tutti i luoghi comuni che si possono cumulare nella parola cinesi, addirittura irresistibile. Come irresistibile, per capacità di percezione del mondo circostante e di isolamento dei temi, in Made in Italy è il pezzo intitolato «La sacra famiglia»- che si risolve in una litania sul numero tre. In quanto a Pornobboy, esso si apre con un elenco delle maggiori testate giornalistiche con le loro offerte speciali. Impossibile non ridere. Impossibile non piangere. L’infantilismo del nostro mondo culturale, o del mondo in quanto modellato dai media, esplode nel terzo tempo: l’evocazione dei personaggi il cui nome ha occupato le cronache di questi anni, da Meredith ad Amanda, da Giuliani a Quattrocchi, da Veronica a Eluana, con tutto ciò che il loro si è deliberatamente detto, è di per sé puro strazio. In The best of, i tre protagonisti finiscono in una reale/simbolica nuvola di schiuma, che tutto pulisce, nel suo candore, ma che tutto copre, mistifica, nasconde.

Ci sbagliamo. Capita, vedendo teatro, di essere infastiditi da qualcosa, magari dalla fama che quello che stiamo guardando già porta con sé. Annusiamo odore di moda e ci ritraiamo. Oppure, semplicemente, non capiamo. Mi è successo di fronte al “fenomeno” Babilonia Teatri. Il loro primo successo, made in italy, mi aveva lasciato perplesso, con quello stile a litania-invettiva che sapeva bene dove collocare buoni e cattivi nel gran demenzaio che è l’Italia. Scrivevo:
Lo spettacolo vincitore del Premio Scenario, made in Italy di Babilonia Teatri, ha tutti gli splendori, le ingenuità, gli schematismi dell’opera prima: una dichiarazione frontale, ironica, sul disagio di vivere nel Paese delle chiacchiere, dei pregiudizi, delle parrocchiette, dell’orgasmo scatenato solo dalla vittoria delle squadra del cuore. Gli attori snocciolano litanie di luoghi comuni a perdifiato su ritmi rock, davanti a una scena di luminarie di paese intorcigliate molto pop. Tutto è divertente, alquanto “graffiante”, uno Zelig un po’ più cattivo. Tutto è abbastanza facile, contrario e simile a quelle chiacchiere da bar dove ogni cosa è chiara, sta al suo posto, il bianco e il nero: gli altri sono sempre i cattivi e noi, con uno sberleffo, chiamiamo tana.

C’era qualcosa insieme di affascinate e di repellente in quello stile frontale, diretto, violento, volgare. Tanto, che dopo questo giudizio, non mi sono mai perso uno spettacolo della compagnia veronese. Tutti simili, con una cifra non casuale, che rappresentava un modo sofferto, estremo di cercare una lingua teatrale per analizzare il disastro che ci circonda. Quel martellante ripetere cliché, affondare cinicamente il coltello nella piaga di una repubblica basata sul chiacchiera che scivola nel vaniloquio e nel pregiudizio, a poco a poco mi ha conquistato.

Gli spettacoli di Valeria Raimondi e Enrico Castellani sono così, credo: conquistano o respingono. La loro virtù è quella di restituirci la volgarità dei nostri tempi, delle nostre menti bruciate dalla semplificazione televisiva, superficiali, chiuse, assediate da un’aggressività mascherata da paura (o viceversa), con i dovuti interessi.
Così è con quest’ultima opera,in prima assoluta al The best of, che segna un limite, forse la chiusura di un ciclo, o un rilancio del loro personalissimo stile. Dopo quattro opere monotematiche e monomaniacali (ognuna puntata su un’immagine, con parole snocciolate come mitragliate per lo più da fermi), ora compongono un affresco che racchiude in circa un’ora e mezza Underwork, made in italy e Pornobboy.

Alle Fonderie Limone di Moncalieri, lo spettacolo è annunciato alle 23 e inizia poco prima delle 24: nonostante l’ora, la sala è piena di un pubblico in buona parte di fan, venuti anche da lontano, che alla fine decreterà ai quattro veronesi (ai due autori bisogna aggiungere Ilaria Dalle Donne e Luca Scotton) un trionfo da curva sud. Sono vestiti uno di verde, uno di bianco, uno di rosso i tre attori, e iniziano a sparare frasi fatte con il loro ritmo, a parlare di lavoro, a mandare a lavorare gli sfaticati barboni, a cercare lavoro, non trovare lavoro, ma chi cerca trova, perché underwork, sotto sotto, sotto il lavoro, lavoro c’è, e via slittando, con punte di irresistibile comicità, verso altre frasi, luoghi comuni, che ogni tanto si impennano in un dialetto italianizzato che prende le distanze dalla lingua italiana, che rimanda al famigerato “territorio”, a tutte le piccole patrie, tribù, pregiudizi.

Una parola ne genera un’altra, un disgusto ne provoca uno ancora maggiore, una cascata di repulsioni che diventano odio, bestemmia, consolazione da canzonetta. È un piacere farsi rapire dalla loro “unilateralità”, guardarsi deformati nel loro sberleffo sotto le luci pop di made in italy, mentre evocano la superdiretta dei funerali di Pavarotti con passaggi delle Frecce Tricolori, mentre agiscono la solitudine, dando voce a ciò che sta “fuori scena”, all’osceno, al pornografico del nostro pensiero e comportamento nazionale, mentre affermano un sesso immaturo con protesi di luci, con estasi per i gol della nazionale, sotto cascate di coriandoli, bianco-rosso-verdi.
Certo che possono disturbare, possono apparire senza pietas, unilaterali, estremisti. Ma sono necessari, chirurgici, portatori di un realismo incontrovertibile che diventa magica operazione di psicoanalisi immaginale collettiva. Con quel loro stile franto, rap come intonazione, punk come inconciliabile strappo, ferita: con qualcosa che richiama i disgusti di Thomas Bernhard, ma con una nota profondamente personale.

Dopo essersi dimenati, si ricompongono, di nuovo in tre, davanti a un cartellone con le loro icone come manifesti pubblicitari (chi dice che il nostro non è il paese di una pubblicità che sembra rivolgersi a dei cretini, provi a vedere fino alla fine un film di Canale 5). Indossano lui una maglietta col Che Guevara, lei un’altra con una sagoma di madonna (Maria di Nazareth, non Veronica Ciccone), la terza una t-shirt “I love NY”. Sono noi, come siamo, oltre le ideologie, con le idee molto confuse, pronti a urlare a turno col pugno chiuso o il saluto romano, a chiedere sangue, spettacolo, vittime da triturare nella gogna mediatica, esauriti in un teatro dell’inazione, tutto mentale, antidrammatico, insieme patetico e inane.

Prima, al momento dell’estasi da gol, da sotto una maglia ne era spuntata un’altra con su scritto “Io sto bene”. Non stiamo tanto in salute, noi, invece, che siamo i loro doppi e i loro autori. Si fermano, ogni tanto, attoniti, con gli occhi spersi, per ricordarcelo, in alcuni secondi di insopportabile silenzio dopo tante parole. Poi continuano. Poi si fermano. E questa volta per sempre. Un pene di metallo, in alto, alle loro spalle, grande, vomita una gorgogliante schiuma bianca che a poco a poco li sommergerà: peccato, solo, che non arrivi ad annegare anche noi, in platea.

Preparano la strada verso un nuovo ritorno, verso l’ennesima conquista di Roma. E più che altro mi sembra sia un modo per mettere a posto le proprie idee, le proprie cianfrusaglie, fare i conti con il passato senza remore, senza paura o equilibrismi estetici, senza l’angoscia del grande artista costretto a creare qualcosa di nuovo, anche perché qualcosa di nuovo è già in forno, quasi pronto per essere servito (a Roma in primavera) e si chiama The end, sì proprio come la canzone dei Doors. Tutto per poi accorgersi che montate insieme quelle cariche esplosive hanno una detonazione nuova e dunque un’ esplosione forse più fragorosa, ma comunque con lo stesso rumore. Quando aprii il dibattito su Vertigine (il festival-concorso ideato da Giorgio Barberio Corsetti), Graziano Graziani, che di quell’evento fu uno dei curatori, mi fece notare un punto determinante: ovvero la possibilità inesistente per la maggior parte delle compagnie di riproporre i propri vecchi lavori in virtù dell’asfissiante meccanismo dei festival e di quei soggetti produttivi che come i festival spingono l’artista verso la ricerca estenuante della novità. Ecco, i Babilonia Teatri, tra l’altro vincitori proprio di quel Vertigine, il diritto a tenere in vita la propria arte se lo prendono da soli con questo The best of, compilation di una delle più acclamate compagnie del nostro nuovo teatro. Titolo ironico che darebbe l’idea di non pensarci più di tanto alla possibile autonomia di uno spettacolo che raccoglie i loro tre importanti lavori: Underwork, Made in Italy e Pornobboy. Ma bisogna per un attimo prendere coscienza del nostro sguardo viziato e dimenticarci quest’angosciante rincorsa alla novità che rischia di saturare un’intera generazione di artisti e allora tutto apparirebbe più chiaro. Il lungo e faticoso blob, interpretato da Valeria Raimondi (instancabile nonostante la gravidanza arrivata agli ultimi mesi, sul pancione scrive “made in italy”), Enrico Castellani (una furia come sempre) e Ilaria Delle Donne (tiene il ritmo e la carica senza fermarsi un attimo e copre al meglio i momenti a cui Valeria ci aveva abituato), è un fiume in piena nel quale ritroviamo tutto il loro lavoro, i temi salienti dei tre spettacoli: dal precariato di Underwork all’iperesposizione mediatica di Pornobboy, con al centro la celebre poltiglia degli italici vizi, il Made in Italy, tra l’altro in scena in questi giorni a Berlino.

D’altronde perché un grande quadro lo andiamo guardare più volte e ogni volta con gli occhi stralunati del bambino curioso? Perché quel motivetto o quel passaggio musicale lo riproduciamo tanto da creare un solco sul disco che lo ospita? Perché i versi di quel poeta ci spaccano lo stomaco nonostante forse abbiamo superato la centesima lettura? E dunque perché questo ragionamento se non di rado (video a parte) non è applicabile al teatro? Forse in quanto arte stratificata e multiforme che portando con sé l’umano tra la materia del proprio esistere rinuncia all’immortalità che letteratura musica e arti visive hanno di diritto nel proprio codice genetico? Probabile, ma fin quando l’autore/interprete è in vita la performance può certamente avere il diritto di replica, quasi avesse un’immortalità a tempo determinato. E poi Babilonia Teatri per precisione e riconoscibilità del proprio segno estetico, di quella litania che sta diventando un marchio di fabbrica come un celebre riff, non è forse l’unica compagnia teatrale assimilabile a una rock band? Oppure a un gruppo Punk per il segno fisico, l’uso dei materiali in scena (hanno quest’attitudine ad utilizzarli grezzi sin dall’inizio, da quando giravano nei piccoli spazi fino al recente debutto in uno dei festival più importanti come il Romaeuropa), la corrosività della metafora e del gesto nei confronti degli stereotipi sociali? E allora se Babilonia è una rock band concedetegli questo Greatest Hits.