THE END

Oggi la morte non esiste. Non se ne parla. Non la si affronta, né la si nomina. È un tabù.

La morte viene occultata, nascosta. La consideriamo come qualcosa che non fa parte della vita.

La religione cattolica ha le sue responsabilità, ma il nostro modello e stile di vita sposa perfettamente la volontà di rimuovere la questione.  Nel momento in cui ci troviamo a diretto contatto con la morte tornano a galla in modo dirompente le nostre paure. Il buon senso o senso comune non servono più a nulla. Non basta sapere che la vita ha un ciclo, che i propri genitori invecchiano, che ammalarsi è possibile. Non basta neanche la visione consolatoria che la religione ci offre. La morte rimane tale. Uno spettro scuro di cui abbiamo infinitamente paura. In modo estremamente tragico. In modo estremamente comico.

Oggi invecchiare come ammalarsi non è consentito. Il mito dell’eterna giovinezza dilaga. Ci stiamo trasformando in un mondo di Dorian Gray. Vecchi e malati vivono separati dal resto della popolazione. Le parti deboli, d’intralcio o pericolose hanno un luogo a loro deputato in cui stare. Anche i morti per definizione vivono separati dai vivi. Siamo consapevoli che non sempre è stato così, ma per noi oggi è un dato di fatto.

Ci guardiamo e proviamo a fotografarci. A interrogarci sulle ragioni che ci portano a vivere la morte come un corpo estraneo. Violento. Traumatico. Un evento con cui non convivere e non riconciliarci. Di sicuro vedere un corpo morto per la prima volta a vent’anni è diverso da averlo sempre visto. Vedere un animale morire. Ucciderlo. È diverso da trovarlo sezionato e confezionato. Incontrare la morte quotidianamente oggi è un eccezione. Ma la regola continua a volerci mortali.

Il modo in cui viene affrontata e trattata la morte oggi è profondamente bruciante e carico di contraddizioni. E’ una combustione lenta e sotterranea, forse per questo più dolorosa e non cicatrizzabile. Ogni tanto riesce a zampillare all’esterno prima di tornare a scorrere sotto traccia. Coperta da una cenere che non è mai in grado di spegnerla. Ma che si ostina a relegarla nell’alveo di un individualismo che nega una sua elaborazione collettiva.

CREDITI

PREMIO UBU 2011
Miglior Novità Italiana/Ricerca Drammaturgia
Nomination ai Premi Ubu 2011 come Spettacolo dell’anno

di Valeria Raimondi e Enrico Castellani
collaborazione artistica Vincenzo Todesco
con Valeria Raimondi, Enrico Castellani, Luca Scotton
scene Babilonia Teatri/Gianni Volpe/Luca Scotton
luci e audio Babilonia Teatri/Luca Scotton
costumi Babilonia Teatri/Franca Piccoli
organizzazione Alice Castellani
grafiche Franciu
foto Marco Caselli Nirmal e Sara Castiglioni
produzione Babilonia Teatri/CRT Centro di Ricerca per il Teatro
in collaborazione con Operaestate Festival Veneto e Santarcangelo 40
e con il sostegno di Viva Opera Circus
produzione 2011

“Una violenta e struggente riflessione sulla morte, oggi rimossa in nome di una posticcia eterna giovinezza. Babilonia Teatri sferra un salutare pugno nello stomaco al Dorian Gray che è in noi. Terribile e meraviglioso.”

Claudia Cannella

RASSEGNA STAMPA

Se permettete, parliamo di morte. Ci costringono a farlo i Babilonia Teatri, compagnia giovane e agguerrita, impegnatissima, mai ovvia. Al Carignano, per il festival Prospettiva2, ha portato The End. Non sappiamo se nella forma definitiva. Lo spettacolo ha debuttato in estate al festival di Santarcangelo in una forma profondamente diversa dall’attuale, per cui è possibile che in un futuro questa creazione si modifichi ancora, assuma altre nuances e altri suoni. Ma quel che abbiamo visto adesso possiede una sua potente compiutezza. Con gli autori-attori Valeria Raimondi e Enrico Castellani c’è in scena un Cristo in croce, dietro campeggia la parola Wanted. Lo spettacolo si compone di due nuclei indipendenti che trovano unità nel tema della morte. Nella prima sezione, una donna eleva una preghiera laica al Cristo affinchè le restituisca il figlio. Parla a perdifiato, com’è nello stile della compagnia; dice ovvietà che incastra a versi poetici, tiritere, nine-nanne, finchè non esplode un colpo di pistola verso l’alto, lassù, lassù. L’uomo invece parla di vecchiaia e di consumazione fisica. Implora dignità mentre dal frigorifero, vengono estratte le teste di un bue e un asino: memoria di tempi lontani, di favole, di fiati che scaldano. Anche qui c’è di mezzo una pistola. E’ considerata uno stumento igienico, qualcosa che evita, o può evitare, la vergogna della degradazione. L’angoscia che lo spettatore assorbe non annulla la tagliente rappresentazione di un tabù che vorrebbe essere occultato sotto le forme dell’eterna giovinezza. Desiderio assurdo e inumano.

Un’invettiva incandescente contro la rimozione medicalizzata della morte. Con The End i Babilonia Teatri affondano un colpo straordinario dentro il tabù per eccellenza. Valeria Raimondi, presenza scenica formidabile, officia un rito profano all’ombra di un cristo in croce con le teste mozzate del bue e dell’asinello: una natività al contrario che ferisce e commuove prima di un finale memorabile in cui la vita ricompare in un’immagine di struggente bellezza.

The End è uno spettacolo potente, uguale a tutti gli altri lavori di Babilonia e diverso da tutti gli altri.

È potente perché al di là del tema indagato, la morte, lo spettatore è lacerato nelle sue incertezze più intime, rilette e rivissute attraverso frasi fatte, con una messa in scena imponentemente semplice, che ci porta in un ambiente che è la desolazione dell’anima, la solitudine di una casa, la navata di una chiesa, il bordo di una culla, nel giro di un batter d’occhio.

È uguale a tutti gli altri perché Babilonia ripropone il suo modo di raccontare, con quella sorta di cantilena inespressiva e un testo ricavato dalle paranoie del contemporaneo. Chi è in scena guarda il pubblico con un aria mista fra la recita di una poesia del bambino di scuola elementare e l’insulto. E via. Parte il monologo perdifiato, quasi urlato, che sputa fuori quelle parole che ognuno di noi tiene conficcate i gola.

È diverso da tutti gli altri perché racconta, e bene, un’altra storia. E lo fa forte di un percorso che chi ha avuto modo di seguire nelle sue tappe, capisce quanto sia stato di asciugatura, come il pittore che nel suo crescere, arriva dal segno barocco e ridondante all’essenziale. Da vedere.

Una violenta e struggente riflessione sulla morte, oggi rimossa in nome di una posticcia eterna giovinezza. Babilonia Teatri sferra un salutare pugno nello stomaco al Dorian Gray che è in noi. Terribile e meraviglioso.

Monologo dal linguaggio forte e violento sulla morte, su come sia bandita, esorcizzata nella nostra società. Una sorta di rap scritto da Enrico Castellani e Valeria Raimondi anche brava interprete che parla senza sosta, sol davanti alla fine e ragionando con forza, con lucidità su molti aspetti che ruotano intorno alla morte dalla vecchiaia ai funerali, invoca una naturalezza, una pietà, una compassione perse ormai e anche la poesia non è consolatoria ma parte di un magma di dolore.

Nella scena vuota spicca solo un frigorifero, da cui esce una fune che sale al soffitto. Da una parte, abbandonato a terra, un crocefisso. A un certo punto il crocefisso verrà appeso alla fune e sollevato. Ai suoi lati verranno issate, invece dei ladroni, le teste di un bue e di un asinello squartati. C’è già tutto lo stile dei Babilonia Teatri, in questa composizione gelidamente violenta. C’è già tutta una sintesi del loro spettacolo, in quel misto di pietà e desolazione che l’immagine esprime. Superando la consueta, risentita osservazione dell’Italia odierna, The end vuole rappresentare una più ampia riflessione sulla morte, sul folgorante cortocircuito fra la morte e una società iper-consumistica in cui vige il mito dell’eterna giovinezza, in cui si impone l’illusione collettiva che il ciclo dell’esistenza non debba avere mai fine. Nel nostro mondo attuale non si muore, si parte, ci si eclissa, si scompare, non si invecchia, si viene chiusi in istituti dove la decadenza è sottratta allo sguardo. Il testo, scandito dai ritmi sincopati di un incalzante rap teatrale, parte in lingua, parte in aspro dialetto veronese, è di una durezza spudorata, mozzafiato. (…) Gli stessi temi, affrontati mesi fa con dieci giovani attori, sono ora affidati unicamente alla bravissima Valeria Raimondi: incongruamente vestita di lustrini, è una feroce Pizia della periferia veronese, una Pizia con le stimmate che impugna la pistola e sfoggia con irridente nostalgia un’enorme cometa da presepe. Ma il vero coup de théâtre è quando, al culmine di questa buia requisitoria, appare con in braccio il suo bambino appena nato, in un toccante atto di fede nella vita.

Sconvolgente The End, di Enrico Castellani e Valeria Raimondi, una sorta di aspro violento rap sulla morte, sulla dignità nella sofferenza e nella vecchiaia, quasi dei tabù in una società dove bisogna essere sempre efficienti, giovani e possibilmente belli. Colpisce la durezza e la violenza del linguaggio che schiaffeggia con lucida fermezza la volgarità ottusa del rapporto che una società consumistica e superficiale come la nostra ha con la morte. In perfetta sintonia con Seneca che scriveva «la vita non sempre merita di essere conservata. Non è un bene vivere, ma vivere bene» invoca il suo boia personale, la sua assicurazione contro la morte lenta, contro medici, infermieri, parenti senza pietas e invoca una naturalezza, una compassione perse ormai e anche la poesia che emerge con qualche verso non è consolatoria ma parte di un magma di dolore. Uno scorrere di frasi sincopate in uno spettacolo che è una durissima critica, un urlo di indignazione e un desiderio di vita anche nella morte.

Lo spettacolo da luglio ha eliminato l’empito, l’emozione, e ha lasciato risplendere la parola, la durezza di frasi ridotte a frammenti vorticosi del mondo che viviamo, sguardo feroce che trascina anche nella risata, ridicolizzando, per raffreddare subito con l’accumulo, con l’iperbole data da un surplus di realtà, cinica, brutale. Sotto quella noncuranza, quell’egoismo, quel disprezzo, quei pensieri in libertà covano le grida terribili della solitudine, in ogni modo mascherata.

La bellezza di questo spettacolo è che mentre giudica un mondo fuori dai gangheri si mette in gioco e insinua il dubbio che anche chi contempla e rifiuta sia complice, sia parte di un intrico di realtà irrisolvibile. (…)

Sono infinite le invenzioni di questa oratoria sotto un Cristo spigoloso ed emaciato in croce, davanti a un frigorifero scassato che rivela due teste mozzate di animali del presepe. Non c’è più corpo possibile, in questa iper-rimozione della morte, e quindi della vita: solo il vorticare delle parole che riescono a impedire di smarrirci nel sentimentalismo, scorticanti, fotografie che ritraggono, prima di tutti, chi le pronuncia, le mette in scena, le espone. La “siora” in lamé sparisce davanti ai nostri occhi senza bisogno di cambio di costume: si slabbra il giudizio e il personaggio coincide con l’interprete, con le sue insicurezze, i suoi dubbi, le sue paure, gli stessi nostri. Lo spettacolo si incide come goccia, pronto a deflagrare a scoppio ritardato, devastante come una mina a grappolo. Dentro le nostre coscienze.

Coinvolgente, colmo di dolore e di pensiero, colto e diretto, immagini forti e ritmo incalzante: ancora straordinari i Babilonia, capaci ogni volta, affrontando temi diversi, di toccare nodi essenziali della nostra esistenza in forma nuova e, al tempo stesso, assolutamente coerente sul piano espressivo, una poetica intensa e chiara ma anche stratificata, travolgente, spettacoli che, anche quando solleticano il riso, lasciano uno struggimento indicibile. Di magica efficacia anche quest’ultima creazione, The end. (…) Spettacolo superbo, di vorticosa, commovente teatralità.

Babilonia Teatri affronta anche il tema della morte come ha affrontato le tematiche dei precedenti spettacoli: con struggente riflessione e violenta lucidità, senza mai tralasciare la tipica, ruvida, dissacrazione rock-pop-punk, contaminando prepotentemente l’ambiente teatrale con il loro linguaggio, fatto di un’aggressiva litania spersonalizzata a ritmo di rap, un serrato flusso verbale che riversano addosso al pubblico a un ritmo mozzafiato. (…) Un buon lavoro che percorre un sottile crinale di tensione, in cui si palesa l’aggressività nascosta e latente che sta sotto al nostro vivere quotidiano, e dove l’attrice si fa megafono di una pluralità di voci metabolizzando ipocrisie e indignazioni ben sostenute dalla modalità recitativa.

The End non parla di cose piacevoli, ma affronta la rimozione più grande del nostro tempo: quella della morte. In un tempo in cui nessuno può più invecchiare, in cui tutti al massimo passano a miglior vita, sentire un monologo implacabile alla maniera di Babilonia Teatri su tutto il blob che sta attorno alla morte è una esperienza notevole. L’impatto emotivo di questo rap, filastrocca, rosario, un testo pieno di reiterazioni – alla maniera dei vespri nelle chiese la domenica pomeriggio, contaminati però dal ritmo sincopato figlio di YouTube – va fatto sedimentare a lungo.

In meno di un anno, mi verrebbe da dire in poco più di nove mesi, abbiamo visto sul palcoscenici romani Babilonia Teatri per tre volte. Valeria Raimondi, come drammaturgo (con Enrico Castellani) e, al Palladium, protagonista di «The End», scandisce nell’ormai familiare modo suo i versetti del testo. La martellante litania è un’orgogliosa, dolente rivendicazione del diritto individuale a scegliere, nei limiti dell’umanamente possibile, la propria morte. Come sempre, dunque, uno spettacolo politico. (…) Ma l’ambiguità è un tocco in più. Le lievi venature di dialetto veneto e il limpido italiano di Raimondi-Castellani si inoltrano nei labirinti delle vessazione che potrebbero essere arrecate: dall’oblio deliberato di qualunque cosa possa ricordarci che dobbiamo morire ai mille modi escogitati per prolungare l’agonia. (…) Ma c’è, a sigillo di tale immagine un colpo di scena, forse il più alto momento di poesia a cui abbia assistito nei nostri desolati anni, un fulminante corto circuito arte-vita: Valeria Raimondi esce di scena e rientra con, in braccio, un bambino piccolo piccolo. Chi altro è quel bimbo (quel Gesù Bambino) se non l’essere che era dentro di lei quando, col pancione, la vedemmo, nello scorso autunno, su quello stesso palco?

Non perdona , non ammette quasi replica e non retrocede il salmodiare aggressivo e furente di Babilonia Teatro. Il gruppo veronese sembra procedere inarrestabile sulla via che rende liturgica la disperazione della vista sul mondo, la litania stravolta che come al microscopio mostra le nostre debolezze ed errori, nonché gli orrori che i nostri stessi comportamenti generano non appena applicati su scala più vasta ai rapporti tra le persone. (…) Una ricognizione a tutto campo, e a tutto volume, dell’insensatezza che ci circonda, un repertorio infinito e continuamente aggiornabile di stupidità e violenza, sfruttamento e coglionaggine, ingenuità e masochismo di chi si assoggetta a subire l’estetica aberrante del nostro nuovo e progressivo mondo.

La forza di questo spettacolo infatti è da ricercare nella radice del popolare che ha come fonte il suo linguaggio fatto di modi di dire propri della lingua parlata e, a tratti, del dialettale, veneto, supportata da citazioni storicamente lontane ma similari nella ferocia come il S’ì’ fossi foco, arderei ‘l mondo dell’irriverente e provocatorio Cecco Angiolieri. Un ritmo esasperato del dire che fa ridere e allo stesso tempo punta la pistola alle tempie.

Saldamente piantata faccia al pubblico, sottana e blusa a lustrini, rivoltella alla cintola e mani insanguinate come da stimmate, la coautrice e la cointerprete Valeria Raimondi pronuncia grintosamente una serie di litanie laiche tutte all’insegna del non voglio, interrompendosi ogni tanto per issare sopra il palco nudo un grande crocefisso molto realistico, cui poi affianca, ugualmente appese e non meno verosimili, una testa di bue e una di asino. Alla fine dei 50’, durante i quali abbiamo ascoltato, frammisti alle sarcastiche liste di assurdità del nostro mondo, anche brani da Cecco Angiolieri e Ungaretti e musiche danzate ritmicamente da un quartetto, la monologante ci lascia davanti al Cristo morto forse invano. Poi però ricompare, messaggio di speranza, con in braccio un delizioso bambinetto nato da poco.

Una dissacrante messa celebrata in modo caustico e feroce da Valeria Raimondi, questa volta sola in scena per quasi tutto lo spettacolo. Tacchi alti, un abito di paillettes argento e delle stimmate impresse sulle mani, la Raimondi è una sacerdotessa pop il cui messale è un blob feroce che lancia pensieri squallidi e luoghi comuni come fendenti verso il pubblico. La morte non esiste, viene nascosta, e anche la vecchiaia e la malattia oggi sembrano peccati mortali, che fanno emergere le paure profonde di ciascuno di noi. La celebrazione scenica della Raimondi va oltre. Compone ed issa al centro del palcoscenico un crocefisso scomposto sulle note del teme della “Resa dei Conti” di Morricone. Estrae poi da un frigorifero le teste mozzate di un bue e di un asino, che innalza ai lati del crocefisso, e al termine della rappresentazione completa un antipresepe di morte reggendo una cometa di cartone sopra la testa. Ma questa volta i babilonia regalano un raggio di speranza. La Raimondi ritorna per qualche secondo in palcoscenico con il figlio di pochi mesi in braccio, e da crudele sacerdotessa si trasforma in candida madonna. Un lungo applauso ne consacra la bravura, e la richiama in scena per cinque volte sulle note di “The End” dei Doors.

La lingua è «sporca», venata di dialetto, la declamazione ritmata, dura come il tema del titolo, «The end». (…) Una performance amara e pop: insieme alle immagini, in un accumulo che trafigge, mette in luce e fa riconoscere, un fiume di parole, metafore, musiche e visioni.

Avvolta nella nudità della scena, per cinquanta minuti una pressoché sola Valeria Raimondi (coautrice con Enrico Castellani) si scaglia in una giaculatoria assillante che sferza, che denuda, mette all’incide, sbatte mostri in prima pagina. Ma in questo J’Accuse, cui non è estranea un’ironia sottile quanto amara, striscia ben altra denuncia. Tra le righe qui non si condanna solo lo storico equivoco culturale intorno alla morte, che indirettamente è alla base della moderna idiosincrasia alla felicità. (…) Contro il muro di gomma dei massimi sistemi rimbalza il gomitolo di interrogativi che è alla base di questa coraggiosa messinscena. In ‘The End’, tuttavia, non esiste solo squallore da pannolone e decomposizione, ben sottolineata da musiche opportune (De André, Tenco, Morricone, Doors). In ‘The End’ vibra pure la speranza.

(…) A Lugano i Babilonia hanno portato un nuovo spettacolo, The end, ancora premio Ubu nel 2011 per la miglior novità italiana/ricerca drammaturgica inscenato lunedì scorso 27 febbraio al Foce di Lugano. «Me fo la camera ardente / me la fo a Gardaland / attrazione del giorno / tocca il morto fin ch’è caldo». Valeria Raimondi e Enrico Castellani prendono di mira quel sentimento di morbosità nei confronti della morte il morbus, la malattia di chi osserva lo spettacolo della morte (credendo di esorcizzarla?). «Vecchi e malati vivono separati dal resto della popolazione. Le parti deboli, d’intralcio o pericolose, hanno un luogo a loro deputato in cui stare »; e noi che Osserviamo questo «ghetto» possiamo così sentirci forti e sani. I Babilonia Teatri partono sempre dalla cronaca, che lo sguardo passivo spesso svilisce a gossip, riuscendo a forzare il pubblico a non sottrarsi alla riflessione su alcuni temi capitali (il ruolo della politica prima, la nostra relazione con la morte ora). La locandina mostra una serie di sagome nere dipinte a pennarello, appese ciascuna a un filo sottile.

Che rapporto intercorre tra una nostra società iper-consumistica e la morte? Babilonia Teatri, la compagnia in scena lunedì scorso al Foce, ha affrontato la questione con lo spettacolo The end (Premio Ubu 2011 Nuovo testo italiano). Una drammaturgia dai toni forti, intensa, frasi scandite in monologhi sincopati ci buttano in faccia una realtà: siamo parte di un mondo egoista dove un’umanità performante, non può e non vuole vedere e sentir parlare di morte. Perché la morte puzza, è brutta, non è igienica. (…) La scenografia d’impatto aiuta nel proprio intento provocatorio la compagnia: sul palcoscenico viene issato un gigantesco crocifisso a mostrarci quel Cristo venuto al mondo per salvarci. (…) Il pubblico è colpito e confuso, non basta l’innocenza di una nuova vita a cancellare quanto ha visto, e a risolvere una delle più spinose questioni del nostro tempo.

Valeria Raimondi e Enrico Castellani, anima della compagnia, sono tenacemente indirizzati a restituire l’immagine del nostro Paese raccontandone i tic, le incoerenze con spietato cinismo, ed è così pure con “The End”, efficace quanto violenta invettiva contro la rimozione medicalizzata della morte da parte della società contemporanea. In uno spazio scenografia di se stesso, antro desolato, desertico, eccezion fatta per un improbabile frigorifero e, poi, per un crocefisso smontabile, una figura femminile aggredisce il pubblico con un monologo tagliente e monocorde in cui il tabù per eccellenza dei nostri tempi, il disfacimento progressivo del corpo che conduce all’invecchiamento e alla morte, viene come smontato, analizzato, condannato, eppure infine esorcizzato. (…) Nel finale, dopo

che si è sostanzialmente proclamata l’inadeguatezza, e quindi l’invivibilità, di un mondo incapace di affrontare le proprie debolezze,Valeria Raimondi, unica interprete in scena di questo lacerante pamphlet, si presenta al pubblico reggendo in braccio un neonato, ad indicare, prseumibilmente, la necessità esistenziale, pressoché fisiologica, di una prosecuzione dell’avventura umana. (…) un gesto commovente che striderebbe con il resto dello spettacolo se non fosse che ne connota l’appartenenza a un’idea culturale davvero vicina al mondo reale, non sterilmente costruita su un piano esclusivamente concettuale. Ed è proprio della vita vera che si occupa Babilonia Teatri.

Partire dalla morte per arrivare alla vita. Questo è il senso ultimo dello spettacolo The end di Babilonia Teatri, che ha chiuso la stagione di Interazioni del Teatro Verdi. Un lavoro puntuale e sferzante, che arriva come un pugno nello stomaco, per stemperarsi nel finale a sorpresa, dolcissimo e forte. (…) Il testo viene epurato da qualsiasi orpello, così

come lo spazio nudo e crudo, come siamo noi di fronte alla morte o meglio all’idea della morte, snocciolato come un rosario, puntellato di mantra, cadenzato sul ritmo puro della metrica, dentro la quale si mescolano in un impasto dirompente luoghi comuni, filastrocche, espressioni dialettali venete anche grevi, poesie e persino l’intera S’i fossi foco di Cecco Angiolieri, ma anche il nostro disorientamento, le nostre paure, le nostre ipocrisie. (…) Poche potenti visioni che accompagnano il testo nel suo fluire inesorabile, nel contrasto tra l’abito di lamé e le stigmate. Aprendo il frigorifero si scoperchiano le profonde contraddizioni della nostra società, che sterilizza la morte degli uomini e degli animali, rende i malati cartelle cliniche, il corpo marionetta da smembrare e riciclare. Apparentemente dissacrante, in realtà The end fa un percorso verso la sacralità della vita recuperando il senso profondo della morte: la nascita, sulle magiche note dei Doors.

(…) La denuncia di tanta irragionevolezza davanti al tabù della morte e alla mancanza di pietà che la informa si struttura in una sorta di laica via crucis, con tanto di crocifisso issato al centro della scena, accanto al quale come su un Golgota surreale penzolano le teste mozzate di un bue e di un asinello: una natività rovesciata, a dire il tremendo di una vita che non sa fare i conti con la propria fine. Toglie il fiato il rap sincopato della Raimondi, che all’inizio inanella rabbia e invettive fino a citare il Cecco Angiolieri di S’io fossi foco, passa poi attraverso una disincantata elegia del suicidio con una toccantissima Ciao amore ciao di Tenco, ballata in scena a ritmo di hully gully, per siglare di struggente senso poetico l’intera serata con Ed è subito sera di Quasimodo. Che vede nella scena finale, commovente contrasto con il presepio di morte sin lì allestito e sulle note di The End dei Doors, l’interprete con in braccio un bimbetto. Un raggio di luce consolatorio e di speranza. Accoglienza assai calorosa e meritata.

Il baricentro dello spettacolo è il testo/monologo che Castellani recita, freddo e rabbioso, col respiro di un rap: un testo durissimo e colto, che da un ruvido dialetto veronese, impastato nella concretezza del nord-est “produttore” (uno dei tanti nel mondo), tracima in una lingua limpida e secca, paratattica, sincopata, in cui citazioni e materiali perdono di definizione per coagularsi in un unicum di corrosiva asprezza. Ironia, autoironia, dolore, rabbia, violenza. Citazioni e materiali che attraversano aree concettuali vastissime, da Cecco Angiolieri a De Andrè, da Quasimodo a Qoelet, dal quotidiano ciarpame televisivo alla liturgia cattolica pasquale. Ma di teatro si tratta e il testo, pur bellissimo e potente, non basterebbe da solo se non si riflettesse nel contesto di una costruzione scenica in cui accanto alle parole ci sono dei segni, in cui tutto converge con ineluttabile climax verso un’azione (una specie di anti-liturgia della verità che vince la menzogna) e lascia persino intravedere una possibile catarsi.

Squarci di verità che palpano in diretta la morte, un tasto emozionale che quasi sempre cerchiamo di rimuovere, su quell’attimo indicibile di non ritorno puntano detonanti come una pallottola che centra il bersaglio, i Babilonia Teatri nel loro “The End”, meritato premio Ubu 2011 come miglior novità italiana. (…) Parole a raffica, aguzze, perforanti, mischiate al dialetto veronese, apologo della morte frullato a suon di schiaffi che è un istruzione alla vita. Nessuna emozione trapela dai gesti e sguardo del performer, lo spettatore è irrimediabilmente catturato da quel magma mantrico in uno scollamento della percezione, il ritmo volutamente ossessivo, urticante, immette una variante imprevista, neghiamo la morte ma non possiamo fare a meno di ascoltare. Sbatti la morte sul palcoscenico ed è “Babilonia” L’effetto è ipnotico e straniante, metafore, invettive, musica, stralci poetici si susseguono, c’è il decalogo per morire, si paga un boia personale per non subire una fine agonica, si vagheggia l’illusione di essere Dorian Gray, vietato invecchiare, stiamo affogando tutti nel mito della giovinezza eterna, riecheggia la disarmante parabola dei gatti Arturo e Greta, le rime di Cecco Angiolieri “S’i fossi foco”, si balla l’hully gully sulle note di Tenco. Schioccano come corde tese le parole dell’efferato e geniale testo dei Babilonia, ci costringono all’autodafé delle nostre paure e ipocrisie, fino al presto del finale, dove i versi di Quasimodo ci rammentano :Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di luce: ed è subito sera. Chiosano attraversate da una stella cometa le incombenti note dei Doors , salutiamo il ritorno alla vita con il fermo immagine del protagonista avvolto da un cono di tenera luce con un bimbetto in braccio. Da non perdere.

A metà fra un rap scanzonato e una cantilena sacrilega. “The End” di Babilonia Teatri all’Elfo Puccini fino a domenica mette in scena la morte. Quella abusata dalle parole, svilita dalle frasi ripetute ossessivamente, uccisa dai tabù che l’accompagnano. Una morte che nasce dal cortocircuito di cerimonie e riti profani attorno a temi importanti come l’eutanasia. «Per la vita ho tempo, la imparo da solo. Dammi un decalogo per la mia morte» dice l’unico protagonista in scena, il bravo Enrico Castellani. Perché in una società in cui tutto appare e niente è, il funerale non può che finire in un dvd magari tramite il televoto. Lo spettacolo è molto intenso e ben assemblato anche quando gli inserti musicali (da De Andrè ai Doors) irrompono sul palco. E la costruzione di una natività al contrario, in cui l’uomo mette in croce il proprio Cristo fra una testa mozzata di un bue e un asinello offre uno spessore drammatico che fa riflettere. Da vedere.

«Non sono Dorian Gray, voglio il mio boia… non mi vedrete con le mutande piene di merda». Sono le parole disperate pronunciate in uno dei momenti più intensi da Enrico

Castellani, eccezionalmente in scena al posto della partner e co-regista Valeria Raimondi

in «The End», bruciante pièce sulla morte in scena all’Elfo fino a domenica, nell’ambito di

un mini focus su Babilonia Teatri: settimana prossima (dal 21 al 26 maggio) andrà in scena anche «Pinocchio», altro perturbante spettacolo, questa volta una celebrazione della vita con in scena gente uscita dal coma, premio Hystrio 2012 alla drammaturgia.

«The End» è un monologo in cui il protagonista «scaglia» un testo di denuncia sull’ipocrisia della nostra società di fronte alle situazioni limite, prime fra tutte quella del fine

vita. Vincitore a sua volta del l’Ubu 2011 come migliore novità italiana, «The End» è un

violento atto di ribellione contro la perversa trama di finzioni con cui ci proteggiamo dalla nostra verità esistenziale, ordito così sofisticato da negare perfettamente la realtà. La morte è quindi la vera protagonista della pièce, che è anche una specie di «tableau vivant» sui generis che viene composto dall’attore nelle pause della sua invettiva, durante le quali viene issato sulla croce il Cristo morto, insieme alle teste mozzate del bue e dell’asinello al posto dei due briganti del Golgota. Non essere Dorian Gray vuol dire quindi ritrovarsi in una condizione di solitudine perché il celebre personaggio di Oscar Wilde è uno dei  simboli dell’incapacità di vivere, ma in «The End» Dorian Gray è diventata addirittura un’icona collettiva: siamo il Paese dei Dorian Gray, in cui tutti siamo coinvolti nel divorante meccanismo sociale di negazione della morte – e quindi, della vita autentica –, attori fantocci di una liturgia del falso che ci comanda come fingere di vivere. Per l’aspirante suicida sul palco, che preferisce darsi la sua propria e onesta morte, nessuno si salva, a parte forse l’innocenza dei bambini, gli unici che hanno facoltà di sorridere veramente, come fa il pargolo in braccio a Castellani nel finale della pièce, che ci indica la direzione di uscita.